Che siate nuovi punk, vecchi punk, hardcorer del diverso, Vamos a la playa fa parte del vostro DNA. Vi piaccia oppure no.
Le storie di “Camere Separate” vestono i panni di piccole sinfonie incise sulle pagine, come avessimo di fronte un pentagramma, coi suoi adagi, i suoi lenti, le sue accelerazioni improvvise. Tondelli muove i tasti della macchina da scrivere come fossero quelli bianchi e neri di un pianoforte.
Harry Sword ci spinge ad affondare nelle radici profonde del rumore rituale, fino a raggiungere la consapevolezza che già sapevamo tutto, solo che non avevamo una mappa da seguire. Ora c’è. Conviene seguirla, stringendola tra le mani e tenendola sempre a mente quando ascoltiamo qualcosa o ne scriviamo
In The Whale c’è un male di vivere fortissimo, un contrasto mortificante tra la società del consumo e quella degli affetti, dove l’importanza dell’apparire come qualcun altro vuole fa sì che l’individuo si trascini verso l’Ade nella maniera più lenta e squallida possibile.
A volte basta un disco per fare la differenza, soprattutto quando esce in mezzo ad una tormenta di novità, realtà che crescono e che cambiano i connotati della musica “contro”, quella che pone come resistenza alla gentrificazione prematura dell’Arte
Così come i BB anche la loro autobiografia fa da ponte tra i mondi. Dalle parole trasuda tutta l’anomalia di un progetto nato hardcore, trasmigrato nelle discipline hip hop ed evoluto in qualcosa di totalmente inafferrabile
La storica penna di “Rumore” è per me un’isola felice, anzi, un quartiere felice. Il suo modo di scrivere e descrivere la musica che è ben oltre che tutta la sua vita, oltre la religione e il credo, oltre e basta, è un mondo confortevole, fa sentire compresi i malati di musica come me, quelli che quando vanno in una città che non conoscono anziché il percorso di monumenti, chiese e musei si fa quello dei negozi di dischi. Stesso dicasi per il mondo innevato della festività in oggetto
Quando parla di musica è un piacere per gli occhi, si lancia nelle band che lo hanno formato e non sempre si tratta di roba al suo livello di fama, altre invece non può prescindere dal suo status ed è lì che il libro implode e diventa difficile continuare
È vero che l’intento è quello di donare una visione della tragedia, della creazione e di un pensiero, ma è altrettanto vero che stiamo parlando di un libro, un libro che, per di più, ad un certo punto sembra diventare insostenibilmente ripetitivo
Una necessità che si sentiva nell’aria da tempo, quella di dare rilevanza a dove tutto è iniziato, alla passione estrema che portava tanti a voler mettere nero su bianco le proprie opinioni e passioni, facendole dilagare ed entrare nelle case di quelli come me, ma di epoche anche più distanti
“Trainwreck: Woodstock ’99” sembra prendere posizione altra rispetto a quello di HBO, cercando di bilanciare una semplicistica e fuorviante descrizione demonizzante e inquisitoria tout court dell’accaduto ma si rivela essere il solito documentario Netflix-style, sia per impianto meramente visivo sia dal punto di vista dei contenuti, segno di un generale appiattimento di offerta e richiesta che porta alla semplificazione
Le voci sono umane, molto umane, si dibattono nella polvere senza indulgere in autocritiche e la realtà è quella che è, non ci sono sovrastrutture e permettono di scoprire qualcosa che non immaginavi
Il documentario di Toby Arries è una fotografia di una band arrivata al mezzo secolo di età, dei suoi membri attuali e passati e delle loro interazioni che, alla fine, girano sempre attorno alla figura centrale di Robert Fripp.
Il dolore, lo scompiglio, la sete di Altro con le sue necessità escatologiche e quelle escapologiche sono all’indice di “UFO 78”, con il Tempo sezionato in ogni suo singolo movimento, lineare e pulito, sporcato solo dalle azioni degli esseri umani che non imparano, che prediligono il mistero alla verità cui pure anelano
Resta alla fine il dubbio se questa serie sia un’occasione sprecata, oppure un tentativo comunque meritorio di denunciare lo sfruttamento dei lavoratori della musica ad opera di un monopolista partecipato dalle major
Tra punk e provincia, sogni e paludi, risate e nostalgia: l’istantanea di una generazione, genuina anarchica e ribelle, con la comune sensazione di essere nati nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
A 45 anni dal suo triste epilogo, questa è una storia che viene finalmente raccontata nei suoi aspetti umani, aldilà del mito di plastica che è stato creato e dell’industria di immaginette di Elvis che lo ha probabilmente reso antipatico a molti di noi.
La storia di un gruppetto di ragazzi che non sapevano fare nulla, tantomeno suonare e fare musica, e che sono riusciti a fare un album, uno solo. Ma uno degli album più influenti di tutta la storia della musica.
Il mondo che Eugene S. Robinson costruisce mattone dopo mattone, cemento su cemento, liquame che si riversa sulle strade e fetore di immondizia è un mondo tanto spaventoso quanto reale
Il memoir di Mr. Cocker è un oggetto particolare, un oggetto pop, che poi è la fissa sempiterna dell’autore, che ha trasecolato con l’avvento del punk come tanti suoi coetanei, ma che ha sempre servito gli dèi di quel “buon pop”