Non c’è solo il visibile, o meglio, se si guarda meglio c’è tutto un altro mondo, strambo, allucinato, miserevole, fatto di personaggi assurdi e situazioni altrettanto assurde. Oppure c’è la normalità, e raccontarla non è semplice, come non è semplice non rompere il cazzo facendolo.
Nel corso del disco si contano 65 omicidi e un canicidio, più di uno al minuto, sparsi su dieci tracce, tra qualche traditional reinterpretato e molta nuova epica. Nick Cave & the Bad Seeds sarebbero potuti rimanere nella storia della musica, con il nome impresso in caratteri cubitali, semplicemente con questo disco.
I Fleetwood Mac di “Rumours” furono gli attori di un fotoromanzo rosa nel quale recitavano se stessi, e con le loro vicende di passione e tradimento, finirono con lo scrivere l’album pop-rock perfetto anche per quelli che abitualmente non ascoltavano pop-rock
Il disco d’esordio dei Giardini di Mirò è un autentico classico del post-rock e può tranquillamente sedersi al tavolo dei più grandi senza sfigurare, anzi ha perfino più di qualcosa da insegnare.
Sembravano dei montanari arrivati in città in gita premio, e addosso a loro le camice di flanella erano più una divisa da spaccalegna che da aspiranti rockstar, ma quando imbracciavano gli strumenti facevano mangiare la polvere a mezza Seattle.
La capacità di Jamie Stewart rendere patinato l’inferno è, ad oggi, unica, rendere l’odio una sfilata di moda organizzata in un sottoscala sordido con le pareti imbrattate di sangue e sperma qualcosa che in tanti avrebbero copiato, fallendo miseramente. È tutta una questione di visione.
Era da “Disco Volante” che Mike, con una sua creatura, non tornava a questa quantità di oscurità ben poco latente, tutta esposta diremmo alla luce del sole, e invece no, sotto le lampade fredde poste sopra il tavolo operatorio
Con un lavoro più “estremo” e difficile, i Jaga Jazzist tentarono l’avvicinamento ai giganti della musica progressiva lasciandosi dietro alcune caratteristiche del loro sound originario ma mantenendo intatta quella bravura compositiva e sperimentale che li ha sempre contraddistinti
I quattro di Washington D.C. tentarono l’impossibile: l’assalto al vagone dell’industrial rock, all’epoca in piena corsa. Rimediarono i proverbiali quindici minuti di celebrità, ma non riuscirono mai a conquistarsi realmente un posto al sole.
Un disco di canzoni pop-rock nelle quali erano incastonate come gemme rare e splendenti tutti gli elementi che fin qui erano stati disseminati lungo il cammino. La dimostrazione che niente e nessuno poteva mettere in dubbio la grandezza dei Low.
A distanza di vent’anni dalla pubblicazione, purtroppo, l’accorata preghiera laica di Greg Graffin continua a essere inascoltata. Il dolore c’è ancora e, per colpa della pandemia, si è fatto persino più insopportabile. E allora è proprio vero: Dio non esiste. I Bad Religion ce lo dicono da decenni.
“King Of Rock”, questo il nome del disco che Run, Darryl McDaniel, ossia D.M.C. e Jam Master Jay avrebbero spinto ben oltre i confini di casa propria, andando ad infestare quella altrui, entrando nell’Olimpo della Musica di rottura, che diverrà poi moda e normalità, ma che nel 1985 suonava come null’altro poteva suonare.
Per quanto dimesse e spoglie, le canzoni di “I See A Darkness” non rinunciavano mai ad un minimo di misteriosa eleganza, e sebbene Oldham si concentrasse particolarmente sulla sua personale forma oscura di poesia, la musica raramente andava in bianco.
È un disco maestoso e inclassificabile, perché non può essere incastonato in un genere preciso: è funk, jazz, elettronica e lounge tutto assieme ma al contempo è nulla di tutto ciò.
Ma i Beatles hanno fatto solo grandi album? Quasi sempre. E “Yellow Submarine” è un bel quasi sempre.
Il trasformismo della Lennox resta la sensata risposta ad un’epoca in cui il terrorismo cominciava a dilagare nel Vecchio Continente e il Muro era ancora estremamente solido; i suoi camaleontici quanto repentini restyling erano coerenti con l’inquietudine dei loro testi e con alcuni dei loro crescendo leggermente ossessivi
“All Things Must Pass” si prese il primo posto negli USA e nel Regno Unito, e vendette in poco tempo una cosa tipo 7 milioni di copie. A John e Paul fischiarono le orecchie.
“Écailles de lune” ha rappresentato la sublimazione del linguaggio Blackgaze, risultando estremamente affascinante per alcuni, immensamente repulsivo per altri, ma non solo: è stata la risposta di Neige a chi credeva che il successo degli Alcest sarebbe velocemente evaporato come una delle tante mode passeggere…
“Epica Etica Etnica Pathos” resta ancora oggi ammantato di una straniante solennità, ed è la testimonianza caotica e lucida di un ideale complesso e contraddittorio che si era sbriciolato su stesso portandosi dietro la band che più di tutti ne incarnava i tratti.
Piene di spudorato candore e primordiale energia, le canzoni di “Incesticide” sarebbero poi parse lontane dall’odissea inquieta e sconsolata di “In Utero”, e divampavano dunque libere dal peso della fama e da qualsiasi aspettativa. Erano i Nirvana che stavano mettendo il naso fuori dal proprio scantinato, ma non sapevano ancora quello che c’era dall’altra parte.