“Reign In Blood” è e rimarrà inevitabilmente il disco metal estremo più influente della storia, senza se e senza ma.
Un album crepuscolare, intimista e riflessivo, il cui tema, a detta di molti, è proprio la morte. Un disco che parla di ricordi, di luoghi interiori dell’animo umano, di abbracci struggenti, di perdite, ma che in definitiva, così come è sempre stato nella musica dei R.E.M., non smette mai di parlare di speranza.
Con questo primo disco abbiamo la prova di come inventiva e originalità contraddistinguano questa band fin dai suoi albori e, negli anni a seguire, tutto ciò è stato ribadito più volte in ogni singolo lavoro della band.
Sarà stato davvero uno shock vedere un gruppo portabandiera dell’indie passare ad una major, ma l’onestà dei Sonic Youth è rimasta intaccata e “Washing Machine” è davvero un ottimo esempio. Un capitolo pur sempre sincero della band che è stata la stella polare della musica indie.
Nel decennio appena trascorso i Title Fight sono stati tra i maggiori alfieri della musica degli sconfitti. Oggi non esistono più, ma quello che avevano da dire lo hanno detto nel migliore dei modi possibili: sgraziati e onesti.
Distrugge le sbarre e corre fuori, impazzito. Libero. Non smetterà mai di farlo.
Quando arrivò “Sea Change” in molti rimasero spiazzati: alcuni parlarono di capolavoro, altri di un lavoro di transizione, e tutti si chiesero cosa ci facesse il ragazzo in mezzo a quelle canzoni così mestamente crepuscolari. La realtà è che Beck stava sanguinando, e che quel tono misurato e nostalgico doveva sembrargli di parziale conforto.
La cosa più emozionante di “Verdena”, ciò che ancora lo rende argomento di discussione tra noi diciottenni del ’99, è il suo essere così musicalmente democratico. I testi svagati ed ermetici facevano sì che ciascuno ne traesse un suo significato, una storia diversa, uno spunto di riflessione sempre nuovo.
“Down Colorful Hill” non fugge dalla tristezza, l’asseconda, è consapevole che la tristezza è una sensazione (più che) comune dalla quale fuggire o metterla sotto al tappeto può essere futile, qualcosa di cui vergognarsi. Assecondarla, per trovarsi finalmente con un grande sorriso, sulla collina colorata.
“American Ceasar”, dopo tutti questi anni, è ancora attuale, non è in alcun modo datato, sia per quanto riguarda il messaggio, sia per quanto riguarda gli arrangiamenti perché come diceva il suo amico Lou “Nothing beats two guitars, one bass and drums” ed è un’accusa alla classe sociale che ha deciso quale strada farci percorrere, senza farci sapere se ne vale la pena ma dicendoci solo che “Se sei così sarai buono, se invece sei povero e miserabile è colpa tua”.
Questo disco va oltre i confini tradizionali dell’heavy metal: è l’epitome stessa della pesantezza. Il sound è grosso, spesso, granitico e rovente; un suppostone di piombo modellato con l’obiettivo di dilaniare il condotto uditivo
Poteva un disco dance (questo è) e commerciale vagliare significati profondi e di lotta sociale? A quanto pare sì, e con un approccio che avrebbe portato il messaggio ad un pubblico ben maggiore di quello degli squat inglesi e dei centri sociali.
In verità l’album non è “Facelift”, l’album sono gli Alice In Chains. Mi piace vedere ogni loro lavoro come una singola goccia che va a formare l’oceano della loro produzione
I Godspeed You! Black Emperor divennero con questo disco una di quelle realtà musicali di rottura, trasversali e capaci di creare un linguaggio talmente personale ed innovativo che molti altri proveranno invano a replicare, fallendo.
Per i Red Hot Chili Peppers è il momento di rinascere, e la cosa più primordiale, quella che sa di nuovo inizio, è il latte materno: “Mother’s Milk” è un long infinito che in 13 tracce butta fuori tutta la rabbia, la delusione e la voglia di emergere che i quattro hanno in corpo.
Vent’anni dopo “Wheatus” è ancora un album che metti su quando ti guardi allo specchio e ti ricordi che sei vecchio e che qui le stesse cose le cantavano già vent’anni prima gli 883. Che poi il livello è quello.
I Mr. Bungle confezionano un vero e proprio cubo di Rubik musicale, gettano in un bidone tutti gli spezzoni e i frammenti degli anni ottanta e li lasciano marcire, per darli poi in pasto agli anni novanta, provocandogli un’ulcera.
A me ogni tanto capita di pensare ad alcuni gruppi e alla loro importanza basilare nel mondo della musica; se prendiamo il panorama del metal, riuscireste a pensare questo genere senza i Metallica? Io dico di no.
“The Stooges” è la la decostruzione della mascolinità divina Zeppeliniana verso una dimensione più terrena, corporea e apocalittica, è l’annullamento di qualsiasi tipo di spossatezza, di noia, di boriosità da grandi star del rock. È la più grande smorfia che sia mai stata incisa su vinile.
Lo stile dei Minutemen è quanto di più singolare sia esistito in territorio punk e “Double Nickels On The Dime” è uno dei viaggi più belli che un appassionato di musica possa fare.