Riascoltare un album come questo, e realizzare quanto abbia segnato la nostra crescita, è sempre un’esperienza rincuorante.
Quando era leggero, non era mai superficiale, quando era pesante, non era mai ossessivo: l’art-rock di “Surfer Rosa” era un faro acceso sul confine fra gli anni Ottanta e il decennio successivo
Una collisione spontanea di stili e tecniche distinti, una miscela mistificante di avant-noise, speed metal, jazz fusion e trauma da Nintendo. Tenere botta ad un album del genere ti rende una persona migliore.
Poco importa se stiamo celebrando il primo disco solista di Iggy Pop, o il pezzo mancante del periodo berlinese di David Bowie. Senz’altro, sono vere tutte e due le cose. Con questo disco, i due artisti hanno fissato un caposaldo dell’art-rock, dando a Iggy un successo che non aveva mai conosciuto con gli Stooges
Nel viaggio introspettivo autoimposto, i singoli componenti di una band travolta dal precedente successo commerciale si ritrovano soli: “Black Celebration” è solitudine. Una solitudine che viene metabolizzata e ricacciata fuori sotto forma prima di tutto musicale.
Raccontando dolori e momenti depressivi, “13” riusciva ad incarnare il vuoto generazionale di un mondo alle soglie del nuovo millennio.
Un’esperienza difficile da raccontare a parole, come quando fai uno di quegli incubi al neon, dove tutto è saturo, inquietantemente ordinato, tu sudi freddo, e lo sai che da qualche parte qualcuno impugna un coltello, ma nei loro volti, mezzo-muti, solo sorrisi.
I Silver Mt. Zion percorrono un sentiero più intimo, meno roboante, e per questo non etichettabile. Non chiamatelo post-rock, ma semplicemente identificazione nell’etica ed estetica del punk-rock.
In “Collapse Into Now” ci sono le riflessioni raccontate dal trio di Athens. Delle storie che girano attorno al soggetto, senza mai avvicinarsi più di tanto, ma che non nascondono la verità. Un lavoro che ancora oggi canta la pace, canta la vittoria, canta la speranza
“The Power to Believe” è un gran disco che merita ascolti attenti da parte degli amanti del Metal, quanto del Prog, o semplicemente della musica.
Non stiamo qua a chiederci se “Master Of Puppets” sia il miglior lavoro dei Metallica, il disco più importante del thrash metal o addirittura di tutto l’heavy metal in generale. Fa semplicemente parte di quella ristretta cerchia di album che corrispondono a quelle definizioni. In altre parole, non è solo al comando, ma senza tema di smentita fa parte del gruppo di testa
Tra dildo giganti e papponi del precariato, vicini di casa ubriachi e spacciatori paranoici, vite minime ed emarginati totali, Beck aveva scritto il vademecum della genreless music.
Divorai il disco, passandolo persino ad alcuni miei amici più cari. Era una cosa che, sì e no, avrò fatto cinque volte solo in vita mia. Volevo che tutti si rendessero finalmente conto di appartenere ad una risma di persone fatiscenti accomunate dall’inseguimento di progetti scadenti.
Se l’intento del titolo è far capire che la band dei Gallagher ora si erge in piedi sulle spalle dei giganti Fab Four di Liverpool, c’è un non so che di romantico in tutto questo, quasi di rivendicazione delle loro radici musicali
Un disco multiforme, a partire dal titolo: per alcuni è omonimo, per altri è “I”, per altri ancora è “Car”, dal primo piano di copertina che ritrae un’auto coperta di pioggia nella quale si scorge un Gabriel dall’espressione enigmatica. Quella copertina ricorda quanto sia difficile, ma anche emozionante, allontanarsi da una strada nota per intraprenderne una tutta nuova
“The Blue Mask” è un’opera che segna una cesura esistenziale e artistica per l’autore e, al contempo, un’opera di transizione. Non è uno dei capolavori essenziali di Lou Reed, ma pur sempre uno dei suoi capolavori
Le canzoni di “Harvest” si allargavano e richiudevano, in bilico tra riflessi dorati e recessi d’ombra, tra la resa e la fuga. “Harvest” era la quiete che precedeva il disastro.
Sono sicuro che se, a distanza di cinquant’anni, dovessi affrontare ancora una volta il percorso dalla stazione a casa mia, tornando da un viaggio, lo farei ancora con la faccia immersa per metà nel mio giubbotto, ascoltando il mio respiro come se avessi sedici anni.
L’ultima notte dei Morphine fu anche la più cupa, e quelle di Mark Sandman sembravano le preghiere di un ex giocatore d’azzardo non troppo sicuro del perdono.
Parlare di “The Modern Dance” è come fare la parafrasi di una poesia, un eterno fallimento. “The Modern Dance” lo puoi solo ascoltare e, se sei coraggioso, insieme agli scheletri e ai demoni personali, fare qualche passo di questa danza macabra.