Gli Shellac, un nome e una garanzia: le idee di Steve Albini, Bob Weston e Todd Stanford Trainer sono state e continuano ad essere importanti come poche altre per tutta la musica indipendente a venire.
Un album difficile, frammentario, multiforme, ma proprio per questo intriso di un’autenticità sorprendente persino per una band come i Radiohead, la cui voce è sempre stata pura, senza maschere o diversivi.
“Album Of The Year” è un passo laterale, è il vero “crossover”, il “crossover” puro, come mai l’avevamo conosciuto fino ad allora.
Si potrebbe ipotizzare che l’estrema eterogeneità estetica dei brani potrebbe snaturare l’idea tradizionale di disco. Ma è proprio questa la magia dei Beastie Boys: infrangere i confini di ogni cliché stilistico per approdare in sonorità nuove.
“The Marshall Mather LP” è un album sconvolgente, uno dei migliori lavori hip hop prodotti da Dr. Dre: non stanca mai, non hai mai voglia di cambiare traccia, tutto è perfetto.
“Tommy” è un disco di una grandezza incommensurabile: 2 vinili, 24 tracce, un’ora e un quarto di durata. Non un pezzo debole, non un passaggio a vuoto, nessuna voglia di strafare. Solo tanta (ma tanta) sostanza
Le cose belle e brutte accadono e si succedono e i personaggi che popolano “Tales From the Punchbowl” esistono veramente, sono ovunque, siamo anche noi, sono maschere in cui tutti in qualche modo ci riconosciamo, a tratti, sono sfumature, pezzi di storie che coincidono con qualche parte nascosta in noi e Larry, Les e Tim hanno trovato l’elettricità per farcelo arrivare.
“Down On The Upside” continua a lasciarsi dietro di sé quello strascico di particolarità che mai stanca. Ci ricorda quanto sia stato fondamentale Chris Cornell, e la scena di Seattle tutta, e quanto sia tutt’ora incolmabile il solco che la sua assenza ha lasciato.
“The Man-Machine” è un disco proiettato verso il futuro, premonitore per certi versi. Sono racchiusi al suo interno, seppur in modo velato, suoni e idee che hanno spianato la strada a generazioni intere di artisti che ringraziano l’impeto dei quattro di Düsseldorf per i risultati dati.
Con The Trilogy i Melvins compilano un campionario pienamente esaustivo del loro arsenale sonico, ma è “The Maggot” il capitolo che più prepotentemente si impone a suon di schiaffoni come nuova pietra miliare per gli anni a venire.
“Binaural” è un incrociarsi di rabbia liberatoria e visioni di rapporti umani e sulla distanza tra essi, un affresco che riesce ancora ad essere poetico, pre-11 settembre, quindi con una visione che in seguito si sarebbe inevitabilmente perduta.
“Exciter” è la fine del buio, è l’uscire “a riveder le stelle”, è il tentativo di abbandonare le sonorità cupe che hanno caratterizzato le precedenti produzioni in favore di una struttura compositiva più rarefatta, sebbene la cifra stilistica del gruppo sia sempre immediatamente riconoscibile.
Mick Jagger e la sua voce vengono risucchiati nel magma sonoro che scorre lungo i solchi; ed è un magma inarrestabile, dalle sonorità primitive, tutt’altro che rifinite, ma proprio per questo musicalmente potenti, inarrivabili, uniche.
“Rimini” è il manifesto di un pensiero moralmente lontano da noi, un manifesto di dettami che ci ricordano che in fondo la teoria de “l’essere dalla parte degli altri” non è difficile da abbracciare.
“Junkyard” è stata una festa troppo grande, produrne un seguito non era cosa semplice. Eppure, in così poco tempo, i Birthday Party sono stati il nido perfetto di personalità che negli anni a venire hanno segnato la storia della musica alternativa.
Nonostante si faccia fatica ad apprezzarlo interamente, “Three Imaginary Boys” ha aperto le porte alla successiva discesa dark nichilista dei Cure. E senza di esso non sarebbero nati capolavori indiscussi come ‘Disintegration’ o ‘Pornography’. Scusate se è poco.
Non osò oltre, Marilyn Manson, rifugiandosi nella summa della sua fino a quel momento fulminea carriera da mostro pop, capace di far infuriare tutti i genitori d’America, proprio come aveva preconizzato Reznor. Ma fu la sua decadenza a fare scalpore, incarnata nel perfetto album di una fine che non pareva proprio annunciata ma che infine arrivò
A volte, penso che questa band sia finita presto, troppo presto, e che, visto il contributo dato all’universo del metal, avrebbe potuto sorprendere ancora e ancora.
Un viaggio enorme, ricco di fantastica visionarietà: l’album permane nei lidi più spinti di un ascolto rivolto e votato alla scoperta di trame sonore inconsuete, sollecitate dalla perizia raffinata dei musicisti e dalla tecnica espressiva adottata.
“Times Of Grace” seppur non rappresentando un momento di rottura come il precedente “Through Silver In Blood”, rimane la chiave di volta per comprendere appieno i Neurosis del nuovo millennio