C’era solo il bisogno di fare fuori il passato, di lavorare per sottrazione. Sapete cosa? È decisamente questo il punto chiave: togliere al passato, fare legna per bruciare il futuro, in un unico immenso falò mostruoso che poteva terminare sulla cima di un picco di unicità, in qualche modo inevitabilmente fallite.
È quel disco che pare un colpo di coda e abbiamo tutti temuto fosse il loro lascito, il capitolo diverso, il colore sbagliato nel quadro perfetto che è stato la loro discografia. Forse è proprio così, o forse no, mentre scrivo questa robaccia ancora non ne ho la benché minima idea.
La solitudine, elemento che si respira dalla prima all’ultima traccia, l’isolamento, l’esilio autoimposto, il bisogno di separarsi e ritrovare la sua identità di emarginato. Non vi è nessun cambiamento in lui, semplicemente se ne va con i suoi vestiti di sempre per starsene da solo.
Un biglietto d’addio lasciato in una casa in perfetto ordine, una casa piena di ricordi e lacrime, di rabbia con cui abbiamo tappezzato le pareti. Lasciamola così com’è, lasciamo fuori la testa e non pensiamoci più. È andata così, perché è così che doveva andare.
Con “Infest” i Papa Roach, per la prima e unica volta nella loro carriera, mostrarono di avere le carte in regola per essere qualcosa in più che dei semplici mestieranti del mainstream rock più furbetto e plasticoso. Peccato non abbiano creduto abbastanza nei loro mezzi, diventando esattamente l’opposto di ciò che erano all’uscita di questo album.
Un flop commerciale che, neanche un anno dopo la sua pubblicazione, finì per essere addirittura letale per i Fear Factory. Ma è impossibile uccidere definitivamente le macchine. La fabbrica della paura sarebbe presto tornata in funzione, seppur priva di uno dei suoi ingranaggi fondamentali: il riffmaster Dino Cazares.
“Damnation” era un purgatorio, un luogo d’attesa e sospensione eterna, sin dalla copertina, che mischiava sotto e sovraesposizione in un bianco e nero impresso su una pellicola sviluppata nel liquore dell’amarezza senza fine.
“Pork Soda” è il disco che sdoganò l’essere particolari, unici e strani e diede una forte dose di autostima a tanta gente che ne aveva bisogno. Agli adolescenti che non capivano, non condividevano il mondo che li circondava, i Primus regalarono un rifugio, uno specchio in cui riconoscersi.
Tutti i rapper, chi più chi meno, ritengono di fare poesia. La differenza sostanziale tra Nas e centinaia di altri nomi è che almeno per quanto concerne il suo disco d’esordio, la cosa è da intendersi in senso letterale.
Si pensi al cinema surrealista di Luis Buñuel e Salvador Dalì menzionato in “Debaser” a confronto delle grandi produzioni hollywoodiane. Quel brivido? È lo stesso che genera l’oggi poco più che trentenne “Doolittle”. Un documento prezioso, quasi religioso, emblematico di creatività ed onestà intellettuale.
Oltre a rappresentare la definitiva maturità espressiva dei giovani di Belo Horizonte, “Beneath the Remains” è un’istantanea pressoché perfetta del periodo di transizione tra il thrash metal e il death metal.
In “Mutter” è racchiuso tutto ciò che i Rammstein rappresentano: una band che ha creato un connubio portentoso di industrial metal scolpito dallo stridente idioma tedesco, che crea un impatto grottescamente incisivo ed inquietante.
Con una stesura da concept album, in “Bad Moon Rising” la Verità è il punto fermo, distante e attento, disperato e spietato.
La copertina era una delle più belle che avessi mai visto: kafkiana e perturbante, il punto di vista di un uomo a terra, o forse sdraiato sui sedili della metropolitana e svegliato di soprassalto dall’abbaiare di un cane poliziotto. Da qui il terrore, il sentirsi schiacciati, oppressi dalle regole, scappare via con la coda tra le gambe.
Avere tra le mani “Frogstomp” fu qualcosa di così bello per essere vero che molti, davvero troppi, non vi credettero abbastanza.
“II” è un album che soffre e trasuda oscenità, il sangue come liquame nero, ispirato da tutto ciò che di negativo può esserci sul tragitto dalla culla alla tomba e serve a liberarsi dal fardello che ci opprime mentre ci muoviamo verso il momento inevitabile.
Un trip su cui si abbattono piogge torrenziali di chitarre mutanti e sintetizzatori gelidi che ammaccano l’auto, accompagnate da ritmiche disumanizzate e precise al millimetro su cui svetta l’ugola di Wayne, bestiale transumanza di anime dannate attraverso le corde vocali, prese dal recesso più fetido delle slum di una città cibernetizzata incastrata tra lo Stige e l’Inferno più nero.
“The Ideal Crash” è il disco che racconta un epoca. Un album dalla qualità dei pezzi altissima, quello che meglio rispecchia la dimensione della fine degli anni 90, almeno in Europa. Un album che potevi ascoltare in casa, dal vivo, in un club, era sempre adatto, era una musica che ti accompagnava sempre.
A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua uscita, continua ad esercitare un fascino magnetico e malsano, come un rituale che si ripete da generazioni e che non smette di incantare.
Un coacervo insensato di stilemi sconclusionati atrocemente compressi in un’unica soluzione, e il fatto che funzioni è già di per sé un miracolo senza pari.