Operando in maniera analoga a specialisti della commistione quali Beastie Boys e Prince, la band capitanata da Black Thought e Ahmir “?Love” Thompson approntava un succulento zibaldone in cui il classico groove in quattro quarti, veniva mandato alla scoperta di molteplici universi sonori.
Gli AIC non hanno mai sfruttato la loro fama, quando ci si aspettava un nuovo album hanno fatto uscire un EP acustico. E poi un altro. E poi? Un capolavoro che nessuno si aspettava. Questo.
“Lesser Matters” è un autentico gioiello pop degli anni zero. Un capolavoro troppo spesso dimenticato, di una band che non ha mai avvertito l’urgenza dei riflettori, ma che avrebbe meritato più attenzione di quella di cui ha goduto e gode tuttora.
Nonostante fosse un disco da nulla si erse sopra gli altri. Non vi sembra assurdo? A me sì e rimettendolo su provo le stesse identiche sensazioni di una volta: un misto di fastidio e impossibilità di dimenticarne i singoli. Eppure fu generazionale, tanto che il refrain di “Pretty Fly” lo canticchiamo tutti, se ripassa da qualche stereo. Maledizione.
Non era semplicemente la superficialità di sorridere e dimenticarsi di tutto il resto, era un immergersi totalmente in qualsiasi cosa e galleggiarci dentro come una barchetta di legno su un oceano sconfinato. È quella per me la fonte della spensieratezza di “Barrett”: la consapevolezza profonda di essere un piccolo nulla in mezzo all’infinito.
L’Andrew W.K. che sull’iconica copertina di “I Get Wet” gronda sangue dal naso e ci fissa con occhi spenti ha il volto di un uomo disposto a farsi del male pur di essere realmente felice
Un disco perfetto, dove si alternano grida di unità e libertà a momenti intimi da condividere con pochi. Un suono che ha raggruppato milioni di ragazzi in una dimensione finalmente primitiva dove le sovrastrutture sono crollate.
Scritto nel periodo di massima tensione tra J Mascis e Lou Barlow, “Bug” è un capolavoro indie rock e contiene alcuni dei pezzi migliori mai registrati dai Dinosaur Jr.
Se Dick e Bradbury mi hanno insegnato qualcosa è che il velo che divide finzione e realtà è troppo sottile ma altrettanto oscuro e impossibile da rimuovere, e così gli Isis dirimevano le nebbie con le loro ritmiche tribali in un unico sali-e-scendi impetuoso e verosimilmente immobile.
Fondamentalmente, non eravamo pronti per un disco del genere. Non perchè sia irrinunciabile, no. Il fatto è che i Millencolin, nel bene o nel male, hanno segnato l’inizio di un’epoca.
Nessuno fu coraggioso la metà dei Refused, che in un momento in cui il punk per il mondo era Rancid, Green Day, Blink-182 e forse NOFX, si misero sul pulpito, giovanissimi com’erano, e dissero “eh no, cari miei, è QUESTO il punk”.
Le accuse di giovanilismo rivolte alla band sono tanto legittime quanto sterili: si sa che negli ambienti musicali poche cose sono imperdonabili come il successo. Nell’era del pop fatto male e spacciato per indie, della trap e sa il cielo di cos’altro, avercene di Linkin Park nelle camerette dei tredicenni.
Come Shu in Ken Il Guerriero che obbligato da Souther porta la punta della piramide sulle sue spalle giungendo ad una morte gloriosa, così fecero gli Smashing Pumpkins, perché “Adore” e “Machina” sono splendidi ma erano lo spettro di qualcosa feralmente post-mortem. La Passione degli SP è “Mellon Collie”, è il sacrificio ultimo di una band che non voleva piegarsi alle mode e far di testa sua.
Il debutto dei Nine Inch Nails ha rappresentato una delle sincere, ultime novità nell’ambito della musica rock e ha contribuito a lanciare un talento infinito che ancora oggi ci regala tante soddisfazioni. È l’inizio ed è perfetto per chi sceglie di ripercorrere un po’ di storia dell’industrial, di capirne lo sviluppo e di conoscerne lo stato attuale.
Una delle caratteristiche principali dell’opera è la sua varietà: “Heartwork” si trasformò in un incredibile manuale dell’elasticità e del camaleontismo del death metal. Uno schiaffo in faccia a tutti coloro che lamentavano una certa ritrosia alla sperimentazione all’interno del genere.
I Sonic Youth avevano alzato una barricata tra underground e mainstream mai così solida e invalicabile. E tutto questo rumore che divorava pian piano ogni forma di melodia fino a farla schiava e poi complice non poteva esserne dimostrazione migliore.
Non è un lavoro che possa lasciare passivi, siete costantemente attaccati e provocati, sta a voi decidere se lo strumento vi cambierà la vita o ve la sfiori solamente. Non posso che ringraziare Mark Hollis ogni giorno, ovunque egli sia.
Il resoconto di una gioventù segnata da incomprensioni, rapporti fallaci e trascorsi famigliari dolorosi. Un’elegia funebre dettata dal rimpianto per un’innocenza violata e irrimediabilmente perduta.
Il rumore è l’unica costante in un mondo sempre più fiaccato da suoni e melodie intercambiabili. Il rumore è un variante evolutiva tanto inarrestabile che dimenticarlo è impossibile. Fa parte di noi, volenti o nolenti.
I Dillinger Escape Plan non solo hanno avuto l’idea folle di prendere un disco come “The Shape Of Jazz To Come” e suonarlo con la furia il nichilismo e il tiro hardcore, ma anche la bravura di mettere il tutto nero su bianco con una facilità e una confidenza nei propri mezzi, scioccante.