Cambia tutto con “Blues For The Red Sun”: cambiano i Kyuss (e pian piano si sgretolano) ma cambia anche il rock del deserto, diventa vessillo dello stoner, diventa lo stoner stesso ora e per sempre.
Gli Slipknot dietro le loro maschere facevano davvero paura e vedendo un mondo morente e allo sbando lo descrissero alla perfezione spingendolo definitivamente nella fossa che si era scavato da solo.
È questa la forza che ha reso “De-Loused In The Comatorium” l’album immortale che è: essere complicato senza sembrarlo, rendendo possibile l’incontro tra mondi antagonisti per antonomasia, permettendo ai fan il singalong dove non avrebbe avuto senso ci fosse.
Un best seller di pura malvagità che, a distanza di 25 anni dalla sua uscita, rappresenta ancora uno dei punti più alti raggiunti da quel genio di Trey Azagthoth e dalla sua “macabra” creatura angelica.
“White Pony” compie 20 anni e a riascoltarlo è evidente una cosa su tutte: nemmeno gli stessi Deftones sono riusciti a raggiungere in seguito così tanta maturità e self-consciousness e a tradurla in un album di siffatta bellezza e semplice complicatezza emotiva e morale.
“Sevas Tra” rimarrà un unicum nella discografia di Otep, uno di quegli album di debutto che andrebbero riascoltati di continuo ma che non hanno avuto modo di ripetere né formula né sentimento.
“Lovehatetragedy” fu un’iniezione di adrenalina nel cuore di migliaia di adolescenti stufi del bolso carrozzone nu metal.
“Demanufacture” è stata l’ipertecnologica pietra miliare che ha dato scintilla al nu metal con tutti i suoi pregi e i suoi difetti ma anche con il suo modo di contrapporsi allo schifo imperante di una società ai limiti della sanità mentale.
Se un giorno dovessero chiedermi di descrivere l’Islanda, anche senza averci mai messo piede, risponderei: “ecco, senti qua”.
“Untouchables” è il tassello più importante della discografia dei Korn poiché racchiude in sé la summa del proprio passato, l’incredibile evoluzione di un suono già di suo rivoluzionario e l’inevitabile fine dei giochi che il futuro aveva in serbo per i cinque californiani
La dolcezza noir di “Adore” è impossibile da trovare altrove e definisce con la perfezione del silenzio un album che vent’anni dopo ancora muove corde invisibili commuovendo per delicatezza ed espressività.
In data 30 maggio 2006, ossia nel mezzo del suo momento più intensamente post-moderno/avanguardistico ed “alternativo”, Mike Patton decide di sganciare una bomba pop calibrata e formulata in assiomi di singalong ad altissimo gradiente commerciale senza che questo risulti un insulto.
“Monotheist” è uno spaventoso testamento artistico e spirituale che ha chiuso in maniera brillante la travagliatissima carriera di questi giganti svizzeri che, dopo la prematura scomparsa di Martin Eric Ain lo scorso 21 ottobre, possiamo dire con certezza non rivedremo mai più insieme.
“In Glorious Times” è un disco che vive di asperità indigeribili, angoli di crepuscolo disegnati su un fondale di una pellicola espressionista degli anni ’20, il tutto veicolato da un virus metallico che divora la pelle.
“Gish” è il risultato di un tempo che si piega su se stesso traducendosi in un mondo a parte, avulso dallo sporco che si staglia in una decade di confusione e follia non solo artistica e che gli Smashing Pumpkins cavalcheranno a rotta di collo fino ad un’inevitabile autodistruzione.
Il bello di questa monumentale opera rock si nasconde proprio nei più piccoli dettagli. Si tratta di minuscole avvisaglie di una ribellione contro major e addetti ai lavori che in maniera ottusa non colsero l’enorme potenziale commerciale della stramba creatura concepita dalla mente di un geniale enfant prodige.
L’atmosfera che si respira all’interno del primo album dei Mayhem è, per certi versi, inedita rispetto ad altri capisaldi del black norvegese di quegli anni. Quello che si percepisce è solo un senso di morte perenne, per certi versi simile a quello che si prova nei piccoli cimiteri di paese nelle giornate invernali.
“Until Your Heart Stops” è un’opera confusa, acerba e carica di una rabbia talmente forte da sfiorare l’insostenibile. Potrebbero sembrare difetti ma non lo sono affatto.
“Souls At Zero” è l’azzeramento della propria storia e il nuovo inizio in una luce di disgrazia circolare nel suo essere cubica e composta da tenebre impossibili da dissipare.
44 minuti e 17 secondi in tutto. E non si potrebbe rinunciare a cuor leggero ad un solo secondo.