“Perdition City” è William Gibson che costruisce nel centro di Bristol una torre di cavi, motherboards e schermi rotti che mandano in heavy rotation un complesso di androidi innamorati e che permette di volgere lo sguardo fino all’Oxfordshire.
Nessuna band come i Mad Season ha racchiuso in sé l’agghiacciante senso di sconfitta che gli anni ’90 della compagine grunge seattleiana si sono portati dietro, come fosse un fiume che ancora oggi porta sulle proprie acque placidamente i corpi senza vita di coloro che l’hanno resa celebre, amata e odiata al tempo stesso.
A più di 25 anni di distanza, i 12 brani in scaletta non sfigurano mai, confermando anzi l’impressione che si ebbe all’epoca: “The Bends” è un’opera dall’importanza seminale che lasciava trasparire in maniera sempre più netta le fattezze ingombranti di un talento inarrivabile.
“The Downward Spiral” è diventato un manifesto per un’intera generazione di adolescenti in tutto il mondo. A quei tempi Reznor era più vicino a loro. Viveva più a contatto con quel mondo e con quella realtà.
A riascoltare oggi “Enema Of The State” si ha la certezza di avere fatto parte di quell’ultima generazione salvabile, ancora capace di fare stronzate senza che venissero immortalate da uno smarthphone. Davvero tutto andava bene cosi.
Mentre quasi tutti gli artisti di un certo tipo al di là dell’Oceano erano intenti a sciorinare il proprio malessere adolescenziale trasposto in età adulta Corgan, Iha, Chamberlin e D’arcy Wretzky prendevano la Bestia da un altro punto di vista e con un piglio di cuore che ben pochi erano riusciti a cogliere.
La musica di “Roots” si scompone e ricompone di continuo in una colata in assalto del potere costituito mostrando i propri simboli di guerra celando il viso con un warpaint tribale atto a mettere in fuga i nemici e a riunire gli alleati sotto la propria bandiera.
I Portishead. Una di quelle rare band squisitamente dedite al creare dell’ottima musica puntando sulla qualità a discapito della quantità e mai, nemmeno nella fase più popolare della loro carriera, incerte sulle loro scelte di lavoro.
“The River’’ fu l’ultimo tocco di disillusione prima del consumismo estetico degli anni ’80. Tratta il tema della terra, della “Land’’, dei suoi detriti umani che si tuffano lungo il fiume di un progresso che scorre tra le periferie dei sogni dei suoi abitanti.
“Sehnsucht” ha messo in luce un modo di intendere la musica elettronica e quella più propriamente rock unico nel suo essere inscindibile
Come un crocevia culturale senza precedenti “The Fat Of The Land” ha influenzato non solo la musica, ma anche tutta la cultura alternativa di fine anni ’90
A più di vent’anni di distanza “Ok Computer” conserva intatta tutta la sua potenza espressiva e, anzi, sembra aver anticipato molte delle assurdità che oggi affliggono il nostro vivere.
“Get Some” è un flusso di coscienza di una decade di rinascita e perdita verso l’oblio degli anni Zero e andrebbe riscoperto passo passo.
Da one man band un po’ incazzata col mondo a formazione capace di riempire stadi e arene con una fanbase ciclopica: i Foo Fighters divengono quel che conosciamo adesso grazie a “The Colour and the Shape”
“The Future Of War” rimane l’ultimo, assordante, manifesto di una forma futura che non è venuta a crearsi
“The Joshua Tree” è passato alla storia come uno dei dischi che meglio ha saputo raccontare l’America, i suoi paesaggi sterminati, le sue infinite possibilità e le sue altrettante contraddizioni.
Pochi dischi hanno segnato così in profondità il mondo del metal estremo, tanto da confondere e ottundere tutti quanti, anche i più intransigenti estremofili in circolazione.
Un’opera magna che ha sconfitto le barriere del tempo, che ha trasformato una spirale discendente e che sembrava non aver fine, in una corrente ascendente, verso un cielo terso e finalmente tranquillo in cui riposarsi. Dopo gli abusi, dopo le delusioni (sue e altrui) dopo le difficoltà e la follia sfiorata per un soffio. Respirare a pieni polmoni.
Dischi come questo si possono tranquillamente rispolverare a più di 25 anni di distanza, per trovarne immutati brillantezza e spessore.
Per me Marilyn Manson è sempre stato un bartender, di quelli che ti servono un cocktail spaziale al momento giusto e che, quando il loro locale chiude, ti fanno rimpiangere di non esserteli goduti appieno, come avresti voluto, per un motivo o per un altro. E quando riaprono e ci torni, sai che non berrai mai bene quanto hai fatto in precedenza.