“Roseland NYC Live 25 (Remastered 2023)” è una gradita sorpresa che non aggiunge nulla al mito, ma rafforza le fondamenta del culto. Che come tutti i culti si nutre di apparizioni sporadiche, minimali e ben arrangiate
“In Utero” non è solo un album estraniante, è anche un monumento alla sincerità e all’onestà artistica dei suoi creatori. È un’opera che continua a fare male a chiunque la ascolti, anche oggi, a 30 anni di distanza.
Il mondo è cambiato dal 1973. Sono passati cinquant’anni. I Devo non volevano certo guardare nel futuro, predire che piega avrebbe preso il mondo; solo fare una perversa caricatura dei loro tempi.
Cacca, Cacca Liquida, altresì. Ma poi si è deciso di non aggettivare e lasciare solo il sostantivo. Declinato all’Italia, per quanto sia difficile tradurre letteralmente da un altro idioma, sarebbe andata all’incirca così, con l’album dei Green Day: Dookie. Liquid Dookie. Meglio solo “Dookie”, alla fine. Immediato, veloce, sfacciato. Punk.
Come ebbe a dire il grande Sonny Rollins: “Beethoven sopravvive. Bach sopravvive. Non credo che dovremmo aver paura di porre John almeno al loro livello. Qualsiasi cosa John suoni, qualunque cosa John scriva è oltre, indiscutibilmente oltre”.
Il disco è già una leggenda, un “classico”. Di quelli di cui è difficile parlare dei difetti, che pur ce ne sono e pure evidenti. Momenti deboli, in mezzo ad altri che fanno letteralmente perdere la testa nella loro perfezione. Questa ri-edizione non aggiunge e non toglie nulla alla leggenda. Superflua.
Una deflagrazione di melodie espanse, chitarre elastiche che rimbalzano su una ritmica a denti serrati e bassi che sembrano cannoni
L’arrivo di una versione Dolby Atmos di “The Dark Side of the Moon” è sicuramente una notizia gradita per chi si diletta di queste cose. Anche perché è fatta bene. Ma non è abbastanza per farci spendere 300 euro.
È necessario dare ai bluesmen saliti in Michigan e Illinois dal Mississippi, ciò che è dei bluesmen. Una musica, la loro, nata nei campi di schiavitù prima e, dopo la liberazione, sulla strada, con origini che affondano in secolari tradizioni africane. Semmai è questa la musica da cui, eventualmente e se proprio vogliamo essere approssimativi, si potrebbe dire che “nacque tutto”.
Con “Blue Train” John Coltrane si avvia a passare alla storia come uno dei più grandi musicisti di sempre. Un sax, il suo, trasformato in estensione del musicista, dei suoi lati più profondi, che parla all’ascoltatore con un linguaggio intellegibile solo a un livello spirituale, più alto di quello meramente sensoriale.
L’edizione per i 25 anni di “Nimrod” è un piccolo gioiellino da appassionati, soprattutto per i contenuti speciali presenti, eppure manca nel raggiungere quel vibe di nostalgia e revival profondo e viscerale.
Dopo l’ascolto di tutto questo ben di dio, il Dylan del 1996/97 vi entrerà dentro in un modo nuovo, grazie a un prodotto che gli rende giustizia. In un periodo funestato da una malattia cardiaca che quasi ce lo ammazza, il futuro premio Nobel godeva di una ispirazione musicale e poetica all’altezza di quel 1965/66 che poteva bastare da solo per consegnarlo alla leggenda.
I Pelican rimarranno sempre una band relativa, impenetrabile e occulta, ci mancherebbe altro: il loro ancestrale fascino risiede in queste caratteristiche. Forse, però, con questa ristampa, Trevor Shelley e compagni dimostreranno una maggiore vicinanza, oltre che alla loro città natale, al proprio pubblico.
Il secondo disco della band londinese seppe inserirsi nel solco già tracciato dal debutto, interpretando un’evoluzione che non necessariamente è stata quella più prevedibile, ma che riuscì a conquistare per la sua urgenza e la notevole carica espressiva.
“…If I Die, I Die” è un disco che a distanza di 40 anni suona ancora potente come un tuono che all’improvviso squarcia il silenzio di una placida notte d’estate.
Questa speciale raccolta celebra i dodici mesi precedenti l’uscita dell’album “Hunky Dory” di David Bowie – un periodo fondamentale per la sua crescita personale e professionale – in cui emergono demo grezze e casalinghe, curiose sessioni radiofoniche della BBC e registrazioni dal vivo e in studio.
La musica dei Flaming Lips brilla perché nutrita della fantasia infinita di Wayne Coyne la cui vita è una giostra in continuo movimento, conviene salirci perché il viaggio sarà sempre più interessante.
Uno scossone destinato a rubarsi la scena a suon di riff, ritornelli, riprese. Alternativo sia nei confronti della musica mainstream ma anche di quella punk
Ci sono cose che vengono perdute per strada, anche volutamente, dimenticate, ma così pregne di ciò che è stato fino ad un attimo prima da poter far male nell’immediato.
Non c’è dubbio che Larry Klein abbia centrato a pieno l’obiettivo: omaggiare un grandissimo e irripetibile artista, ottenendo l’ambizioso risultato di rendere un canzoniere unico in un linguaggio (quello del jazz) che non era esattamente quello di Leonard Cohen.