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Interviste

Intervista a HUGO RACE

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Avrei dovuto intervistare Hugo Race dopo la sua performance in “solitaria” (tra virgolette poiché accompagnato da Davide Mahony dei Sepiatone) a Il Circolino di Vercelli ma la stanchezza post-concerto ci ha portato ad una “chiacchierata” via mail. Pronti? Via!

Innanzitutto, Hugo, ho adorato il tuo show in “solitaria”, mi hanno colpito in particolar modo le tue versioni di “Sabotage” dei Beastie Boys e di “I’m On Fire” di Springsteen. Perché proprio queste? In particolare quella dei BB.
Sono d’accordo sul fatto che siano delle scelte strane per delle cover, ma è proprio questo che mi sono interessato e, sai, entrambe le canzoni erano richieste da alcuni miei amici. Amo le versioni originali, ma non le avrei mai “coverizzate” senza questo stimolo. Ho registrato “I’m On Fire” per l’album “No, But It’s True”, un album interamente composto da cover scelte dalla mia ragazza Alannah e me mentre guidavo attraverso l’Italia. Ho registrato “I’m On Fire” due volte, poiché la prima versione non funzionava – tirare fuori qualcosa di nuovo da una cover di una canzone famosa è complicato. “Sabotage” invece l’ho registrata per un tribute album organizzato da Franco Naddei dei Cosabeat Studio, lo studio in cui abbiamo registrato tutti gli album dei Fatalists. In entrambi i casi mi è piaciuto sovvertire le canzoni originali per creare qualcosa di nuovo con elementi riconoscibili.

Parlami di “The Spirit”, il nuovo album dei True Spirits e dell’EP “False Idols”. Sono così diversi, ho trovato l’album molto riflessivo, al contrario “False Idols” è molto più diretto.
Comporre questi dischi è un salto nell’ignoto. Volevamo fare degli album che noi stessi avremmo voluto ascoltare – ma inizialmente non avevamo idea di cosa sarebbe stato “The Spirit”. Abbiamo continuato a creare nuovo materiale mentre le sessioni evolvevano in un periodo di oltre due anni. Potevamo percepire l’atmosfera, ma non potevamo definirla, neanche a noi stessi – questa è la parte sperimentale di fare album che mi affascina, guardare qualcosa emergere come la somma di tutte le collaborazioni ma che ha una propria personalità. E alla fine avevamo circa diciassette canzoni. Lavorando alla track list per “The Spirit”, è emersa un’identità eterea escludendo le canzoni più “rock-focused” che sarebbero eventualmente comparse su “False Idols”. Entrambi i dischi sono stati fatti nello stesso momento – sono a tutti gli effetti un solo album, o un doppio – ed esprimono un lato diverso dei True Spirits. Siamo sia una “hard-hitting” psych rock band che un collettivo sperimentale ed improvvisativo. E continueremo ad esserlo.

Che mi dici dei Fatalists, perché hai scelto di lavorare coi Sacri Cuori (personalmente li adoro e la cosa davvero strana è che li ho scoperti grazie a te nel 2009)? Sei davvero “connesso” dall’Italia, ami così tanto questo posto?
Mi hanno fatto spesso questa domanda in Italia! Il mio libro di memorie e frammenti, “Road Series”, uscirà quest’anno a febbraio. Nel libro ci sono tre capitoli dedicati all’Italia e penso che spieghino molto su questa connessione – ma fondamentalmente la mia prima moglie è un’italo-australiana e così i miei due bambini. Quindi la connessione è abbastanza profonda. Poi mi sono spostato in Sicilia, nella mia casa europea, per sei anni più o meno, ma devo dire che fondamentalmente sono sempre in movimento. Ad ogni modo, ho cominciato a lavorare con artisti italiani e ho scoperto che è una grande esperienza e una strada a doppio senso – stavo influenzando altri artisti e ne venivo influenzato a mia volta. I Sepiatone e i Merola Matrix erano, e sono, esplorazioni di uno zeitgeist italiano, e questi progetti mi hanno introdotto ad una visione più profonda dell’Italia. Durante questo periodo, ho incontrato Antonio Gramentieri al festival Strade Blu in Romagna, e ci siamo subito trovati a livello personale, abbiam trovato una visione mutua di come potessero unirsi le nostre musiche. Abbiamo cominciato ad esibirci assieme circa nel 2007 con il percussionista Diego Sapignoli e questa collaborazione si è evoluta nei Fatalists. Nello stesso momento sono emersi i Sacri Cuori ed è diventata una storia parallela – i Sacri Cuori avrebbero aperto tutti i concerti dei Fatalists sia in Italia che nel resto dell’Europa, anche in Australia. Sono un fan dei Sacri Cuori e delle influenze che li ispirano, e attraverso il loro lavoro la mia comprensione dell’Italia ha acquisito una particolare profondità. Al momento sto lavorando al mix del nuovo disco dei Fatalists ed è affascinante esattamente come ciò che abbiamo fatto in precedenza.

Hai suonato con i più grandi nomi della cosiddetta musica alternativa di tutto il mondo, cosa ti ha lasciato quest’esperienza? Quali influenze ti porti dietro da tutte queste collaborazioni? E cos’è, nel 2016, l’ “alternative” per te? Personalmente penso che questo tipo di musica stia morendo, nel senso che nulla è davvero differente oggi come oggi, siamo tutti così connessi, l’esperienza live è difficilissima da “raggiungere”, specialmente per le nuove band e i nuovi artisti.
Penso che non si smetta mai di crescere e di imparare, come artisti. Le collaborazioni – nuove prospettive e nuove esperienze- alimentano la propria evoluzione. Sono stato coinvolto in così tante collaborazioni che non so proprio da dove cominciare. Si ritorna alla musica – che è il linguaggio comune a tutta l’umanità, un legame condiviso nel nostro DNA. Ho fatto musica in situazioni in cui non c’era alcun linguaggio comune oltre a quello musicale – com’è capitato con Dirtmusic [il progetto di Hugo con Chris Brokaw dei Codeine e Chris Eckman dei The Walkabouts, ndr] nell’Africa occidentale. Abbiamo lavorato collettivamente con musicisti del Mali (che non parlavano la stessa lingua, arrivando da regioni differenti) e ci capivamo attraverso i suoni, i gesti, il linguaggio del corpo oltre ad un francese e un inglese sgrammaticati. C’è una sorta di magia nel modo in cui le frequenze e il ritmo toccano ogni essere umano, una qualità universale – nel senso dell’Universo. La musica è davvero come come un fiume dalle origini multiple e dagli innumerevoli rami, e continua a rigenerarsi. Le prossime generazioni adatteranno la nostra musica, mantenendo ciò che è rilevante per i tempi futuri. Sai, amo il primo blues afroamericano dai tardi anni ’20 fino a metà dei ’60. Ma ciò che che è arrivato nei successivi cinquant’anni non è il blues che amo. C’è stato un picco e un declino. Penso che tutte le forme d’arte più forti siano così. La musica è transitoria, è tutta una questione del momento. Ora la senti, ora è andata. Per me la musica “alternative” è musica fatta e distribuita al di fuori dalle strutture corporative. Viviamo in un momento in cui le corporazioni hanno trasceso i valori fondamentali attraverso la monetizzazione dei diritti umani fondamentali – come l’acqua e l’ossigeno. La “corporale music” continuerà a venirci spinta giù per la gola, se glielo permettiamo. L’ “alternative music” non ha questo tipo di forza – è fatta per un’audience più piccola e non dipende dall’essere più grande possibile. Il fatto che questa esista è già abbastanza.

Ci sono degli artisti che ami particolarmente? Secondo me, e contro tutte le aspettative, il 2015 è stato un anno molto intenso, musicalmente parlando.
Sul mio giradischi quest’anno ci sono stati Michal Jacaszek, Lana Del Rey, Sunn O))), Flaming Lips, Black Mango, To Rococco Rot, Andy Stott, The Electric Prunes.

Che tipo di musica vorresti esplorare nel tuo prossimo lavoro? In “We Never Had Control”, ultimo album dei Fatalists, c’è un sintomo elettronico.
I Fatalists sono una band acustica basata sul songwriting in senso classico. Ci sono tracce di elettronica, perché è una parte del mio linguaggio, ma sono sullo sfondo. Il nuovo album guarda indietro ai cantanti-cantautori dei primi anni Settanta – artisti come Tim Hardin, Roger McGuinn dei The Byrds. Ci sono molte orchestrazioni, sia reali che elettroniche. Liricamente, è oscuro ed esistenziale con poche canzoni che interrompono questo mood con beats soul, eco di Bobby Gentry o Tony Joe White. É così che potrei descriverlo, ma la somma di tutte queste cose è molto di più dal momento che i Sacri Cuori sono nel mix – emerge uno strano senso di retro-futurismo.

C’è un grande ritorno di “vecchie” band. Tu c’eri quando queste erano “nuove”, secondo te perché sta accadendo? Non mi fraintendere, non penso tu sia vecchio, inoltre penso che alcune queste realtà abbian ancora qualcosa da dire (ho visto, ad esempio, che hai suonato a Roma con David Yow e i Flipper, e penso che Yow abbia sempre qualcosa da dire) ma perché tutto questo revivalismo?
Sospetto che abbia qualcosa a che fare con l’impressione che niente di veramente nuovo stia accadendo, nel mondo del rock, sin dagli anni ’90. Se non altro un certo tipo di irriverenza ed attitudine sono andate perdute. É difficile fingere attitudine a lungo – prima o poi la contraffazione sarà smascherata. E forse è perché le band degli anni ’80 e ’90 si sono guardate attorno e hanno visto che nulla le ha davvero rimpiazzate – e così hanno deciso di tornare ad esibirsi, e quando lo hanno fatto hanno realizzato che continuano ad avere un’audience per cui suonare.

Ultima domanda: chi è Hugo Race nel 2016?
Ti riporto ancora una volta al libro “Road Series”! Parla molto del mio passato e di come sono arrivato a ciò che sono oggi. Tutto ciò che posso dire è che continuerò a cambiare, ed l’unico modo in cui potrei essere. L’evoluzione, in questa vita, è il perché del fatto che siamo qui.

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