Impatto Sonoro
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16.12.2016: Dieci Anni Bellissimi al Monk in compagnia dei Ministri

Questo non vuole essere un live report del concerto. Vuole essere un racconto di una serata speciale vissuta in prima persona.

Ogni tanto le mie notti sono migliori dei vostri giorni. Ad esempio quella di venerdì 16 dicembre 2016 al Monk. Un connubio perfetto di musica dal vivo, gente, calore. Sì, calore. Perché mentre fuori dal locale (nel buio industriale di via Giuseppe Mirri, una strada senza uscita in cui sorge il Monk tra un edificio abbandonato e decadente di cui rimane solo lo scheletro e un’agenzia di noleggio auto a venti minuti scarsi dai vetri e le luci della Stazione Tiburtina) la temperatura è bassa, non sotto zero probabilmente ma quasi, all’interno è l’inferno in terra.

Ma procediamo con ordine. Ai concerti si va presto. Si aspetta, si vive già prima dell’inizio. Si vive già da casa: studi un piano perfetto secondo il quale arriverai alla tua destinazione ad un orario decente. Per la conquista. La conquista? Sì, la conquista della transenna. Quel pezzo di ferro al quale ti aggrapperai per tutto il concerto, il salvavita ma anche uno strumento di tortura che ti lascerà segni e dolori per tre giorni. Ma il premio è la prima fila. Il gruppo a mezzo metro scarso di distanza. Sentirsi vivi tra sudore, corpi ammassati, urla e decibel elevati sparati addosso. E’ rock, mica musica classica.

La transenna. Pensiero costante di ogni concerto. Oggetto desiderato ardentemente che sembra sempre così lontano e irraggiungibile. E mai come questa volta è sembrato così. Perché da qualche parte c’è un’entità invisibile probabilmente (chiamatela come volete) che prova a metterci i bastoni tra le ruote. Che ti scatena contro le macchine di mezza Roma, il traffico capitolino che ti avvolge e che pare dirti una sola cosa, cruda, inevitabile: “di qui non uscirai mai”. E si procede lentamente su quel serpente senza coda che è la Tiburtina, molto lentamente, troppo lentamente. Via di Portonaccio diventa un miraggio. Quel piano perfetto studiato per due giorni di fila non ti sembra più tanto perfetto. “Avresti dovuto fare così”, “come ti è venuto in mente di passare qui?”, “dovevi partire prima”. Tutto crolla a colpi di clacson, di semafori rossi, di smog e invocazioni all’Altissimo.

E l’Altissimo, per una volta, ti ascolta e si arriva al traguardo, non all’orario previsto ma ottimo lo stesso. L’inviato di Impatto Sonoro c’è. Io ci sono. E si aspetta pazientemente l’apertura del cancello tra quattro chiacchiere con i pochi “transennisti” già lì prima di me. Tutti molto giovani, al tal punto da sentirmi la più anziana. Si parla di licei, compiti in classe, cose ormai distanti nel tempo. Si parla di gruppi, le altre date del tour de “I soldi sono finiti”, “Sono stato anche a Firenze”, “Sono stata anche a Milano”, “Avete sentito il nuovo singolo dei Fast Animals And Slow Kids?”, “Come ti sono sembrati i Gazebo Penguins dal vivo?”, congetture di probabili scalette, congetture riguardo la probabile cover. Altra gente comincia ad arrivare, compresa una ragazza che ci guarda smarrita e che si avvicina dicendo: “Io veramente vorrei solo ritirare la tessera…”. Con lei passo gli ultimi minuti prima dei centro metri piani, la corsa al primo posto, lo spirito di Pietro Mennea che si reincarna in tutti noi. “Chi suona oggi?” “I Ministri. E’ il tour in occasione del decennale del loro primo disco” “Ah, non li conosco, io vado a vedere Il Muro del Canto” “Ah ma dai, quando?” “Il 25. Natale al Monk”. Ore 20.00 circa. Il cancello si apre. Si corre a ritirare la tessera ARCI. Ringrazio molto la ragazza per la compagnia. Corro al botteghino. “Impatto Sonoro”. “Sì, vai pure. Aspetta che ti faccio già il timbro”. Ci si mette in fila. “E’ la prima volta che li vedo” “E non sarà l’ultima, i loro concerti creano dipendenza” “Stasera non fanno le canzoni nuove” “No, è solo il primo disco”. Si apre la porta. Si entra. Mennea, aiutami tu.

 

E Francesca c’è. Sul podio. LA TRANSENNA. Il palco vicinissimo. Un punto tra la postazione di Marco Ulcigrai e quella di Divi. Il gelo della serata è rimasto fuori. Dentro fa caldo. Via cappotto e sciarpa, via il maglione: si rimane con la maglietta dei “Dieci anni bellissimi” presa quindici giorni prima ad una delle due date milanesi, una “S” che non so come risulta troppo lunga e troppo larga. L’attesa aumenta minuto dopo minuto. Il locale si riempe poco a poco. I piedi all’interno delle “Converse da combattimento” ringraziano del tepore e riprendono vita. Un amico mi chiama, una fila dietro: “Francesca” “Hey” “Un incubo, il 409 da Tiburtina non si muoveva di un centimetro” “Non dirlo a me!” “Vado a recuperare gli altri”. Si aspetta.

Ore 21.00 circa. Cominciano le danze con i Plastik, un gruppo di Tivoli abbastanza incazzato con all’attivo due EP e al lavoro sul primo vero album. Una bella scarica elettrica per iniziare in bellezza e una buona dose di rabbia giovanile. A seguire The Winstons, progetto psichedelico/progressive di Roberto Dell’Era (pardon, Rob Winston) degli Afterhours. Quaranta minuti circa di visioni, strutture complesse, un sax e un flauto traverso che sbucano all’improvviso dal nulla.

Leggermente storditi, si aspetta ancora perché fondamentalmente ai concerti si aspetta sempre qualcosa. L’apertura dei cancelli. L’inizio del concerto. Il pezzo preferito. La fine per cercare di beccare qualcuno del gruppo.

E alle 23.00 arriva il loro momento. Il trio dell’anno, o meglio il quartetto (Marco Ulcigrai de Il Triangolo li accompagna alla chitarra di nuovo in questo tour). Salgono sul palco nell’ordine il misterioso Michele Esposito che prende posto alla batteria. L’alto, magro e tatuato Marco alla seconda chitarra. Federico Dragogna all’altra chitarra, capelli lunghi, pronto a sfornare litri di sudore. E per ultimo Divi (Davide Autelitano), basso e voce, frontman scatenato, angelo dannato dagli occhi azzurri.

Le corde vocali cominciano a scaldarsi, la folla pure, sembra di stare ai Tropici. Luci, fumo, colori. Si parte con “La mia giornata che tace” per poi alzare i toni con “I nostri uomini ti vedono”. L’inferno prende vita. Il suono ti arriva addosso con forza, abbracciandoti con sicurezza, l’acustica rende giustizia ad ogni singola nota, cosa che ai Magazzini Generali non è successa. Ogni accordo è limpido, cristallino nella sua ruvidezza e nella sua rabbia. La voce di Divi, chiara ma acida, violenta. E via ancora poi alternando pezzi più ruggenti a “ballate”, “I soldi sono finiti”, la maliconia aspra de “I muri di cinta”, il ruggito de “La sacra quiete della sera” in una sera che è tutt’altro che quieta. E la violenza che tocca vette inaudite con quella “Il mio compagno di stanza” (d’altronde, “DIVENTO VIOLENTO”). La folla preme da dietro, la transenna si conficca nell’addome, i miei capelli si impigliano tra le mani di gente varia, so già che domani mi sveglierò coperta di lividi. Ma non mollo, è il mio posto, la mia serata che chiude un ciclo lungo e bellissimo. Momento introspettivo con “Le mie notti sono migliori dei vostri giorni”, che però non placa la mia gola in fiamme e l’euforia che preme da dentro, che reclama di uscire fuori in urla liberatorie e in ogni singola parola di ogni singolo testo.

E lì, un tuffo al cuore. Divi si avvicina sempre di più al pubblico, fino a trovarmelo esattamente davanti. Si abbassa. Mi sorride. Mi porge uno dei suoi plettri. Gli sorrido. Torna dai suoi compagni di palco. Fisso quel plettro azzurro sul palmo della mia mano per avere la conferma: è successo davvero. Lo tengo stretto nel pugno fino a farmi male. Nel frattempo si riprende: “Lo sporco della Grecia” (“mi sa che con questo pezzo abbiamo portato sfiga a Varoufakis”), “Il sangue dal naso”, “Piano per una fuga”, l’esplosiva “Il Camino de Santiago” per “quelli che hanno una religione”. Si ringrazia più volte la città di Roma e il suo pubblico, la si ringrazia perché “è una città che ci ha sempre accolto a braccia aperte, fin da quella prima data al Traffic, locale che tra l’altro è qua vicino alla Tiburtina. Una città che ci ha accolto anche se siamo tre meneghini che tifano le proprie squadre di calcio per modo di dire. Perché noi abbiamo l’Inter e il Milan. Ma il tifo vero è quello vostro”.

Ministri

E poi l’energia di “Non mi conviene puntare in alto”, un piccolo pensiero dedicato a Effe Punto (Fillippo Cecconi, loro collaboratore live fino al 2009), un reggiseno che vola. E quel pugno dritto al cuore che è “La piazza”, brano potente, doloroso. Arriva il momento della cover, “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” degli Afterhours, un omaggio a Dell’Era lì presente e lieta sorpresa che trascina il pubblico in nuovo delirio. “Meglio se non lo sai”. “Le martellate furiose di “Diritto al tetto”. Le ultime energie si sfogano con l’aggressiva “Abituarsi alla fine” che chiude non solo il disco, ma anche il cerchio di questa sera. Ringraziamenti alla crew. Il volo di Divi dal palco, stage diving finale, il consueto bagno di folla. Ultime schitarrate.

E fari spenti. Il cuore scoppia.

La folla si disperde. Becco un po’ di gente conosciuta, volti di Facebook. “Ma tu sei Francesca, ti ho riconosciuta dalle foto, piacere di conoscerti”, “Hanno fatto Sui giovani d’oggi ci scatarro su”, “Ma stavi davanti?”, “Non ero proprio sicurissimo fossi tu…”. Corro al banchetto, compro il poster del tour, non trovo il portafoglio, “Fai con calma, ma sbrigati” mi sorride il tipo. Mi fiondo a rimediare dell’acqua, la gola protesta, è completamente secca. Sudata e sconvolta, con l’eyeliner colato a picco, esco a prendere aria, in attesa che i nostri cari Ministri sbuchino fuori dai camerini. C’è una ragazza seduta da sola, mi avvicino. “Vengo da Napoli, mi sono persa la data di Napoli e ho rimediato questa sera a Roma. “I soldi sono finiti” non potevo perdermelo”. Si gela. Torno dentro.

C’è Dell’Era che gironzola e gli chiedo una foto. Divi mi passa accanto, “Hey!” “Hey! Il plettro è salvo?” “Il plettro è salvo, ma come fai a ricordarti di averlo dato proprio a me?” “Non dimentico mai le facce di chi sta in prima fila” “Mi firmi il poster?”. Autografo, foto, abbraccio. Cerco gli altri due per farmi firmare il poster, fermo Fede poco dopo. Gli dico chi sono, se si ricorda di me. La tipa dei disegni. Ho una lettera da dargli con una cosa all’interno, indirizzata a tutti e tre. Consegno la posta. Non dice niente ma mi stampa un paio di baci sulle guance. Mi firma il poster, non prima di averci accidentalmente rovesciato sopra il suo cocktail. “Col cocktail rovesciato sopra ce l’hai solo tu”. Mentre cerco il terzo, riconosco Gianluca De Rubertis al bar che forse non si aspettava di essere riconosciuto. “Tu sei Gianluca De Rubertis” “Sì” “Foto?”. Michele lo trovo fuori al locale, manovra complicata per la sua firma senza qualcosa su cui appoggiare il poster, ma ce la facciamo. Missione compiuta. Nella confusione emotiva più totale riesco a recuperare qualche persona. Il locale lentamente si svuota. Alle tre e mezza finiscono i giochi. Saluto persone conosciute finalmente dal vivo, compagni di una serata fantastica, la vera essenza dei concerti. “E’ stato un vero piacere”. “Al prossimo concerto”. “E’ stato bellissimo”.

Tornare a casa è difficile. Troppe immagini in testa. Le orecchie ancora hanno dei problemi. Troppa felicità tutta insieme, quella che solo la musica è in grado di generare. Un tour che volge al termine, una fine alla quale non sarà facile abituarsi. Un disco importante che rappresenta per me una scossa in un periodo dormiente. Un terremoto interiore. L’anima che si sveglia a colpi di rock.

Un gruppo insolito al quale sono ormai affezionata, i “preferiti”, i Ministri del cuore.

Un capitolo che si chiude. Ci tocca aspettare per sudare di nuovo. Per correre di nuovo per essere in orario al concerto. Per correre e raggiungere la transenna. Per gridare con tutto il fiato che abbiamo in corpo. Quindi si aspetta anche al di fuori dei concerti: il disco nuovo, il tour nuovo. Nuova energia. I fan sono in perenne attesa.

Ricaricate le pile che noi saremo sempre qui. In prima fila. I soldi saranno anche finiti. Ma la musica non finisce mai. E in fondo, “ci vuole tempo per ricominciare”.

Indelebile. Indimenticabile. Importante.

Dateci il tempo di farci passare i lividi. E farci tornare la voce.

Un 2016 che si chiude in bellezza. Buon Natale in anticipo, Francesca.

Ministrsi

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