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Sun Kil Moon – Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood

2017 - Rough Trade/Caldo Verde
songwriting

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Tracklist

Disc 1

1. God Bless Ohio
2. Chill Lemon Peanuts
3. Philadelphia Cop
4. The Highway Song
5. Lone Star
6. Window Sash Weights
7. Sarah Lawrence College Song
8. Butch Lullaby

Disc 2

1. Stranger Than Paradise
2. Early June Blues
3. Bergen To Trondheim
4. I Love Portugal
5. Bastille Day
6. Vague Rock Song
7. Seventies TV Show Theme Song
8. I Love You Forever And Beyond Eternity


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Dischi difficili ce ne sono quanti ne volete, di qualsiasi genere e in qualsivoglia salsa: prog rock, post metal, post rock, stoner, sludge, black metal, art rock, pop. Insomma mancano solo polka, Orzo Bimbo e “Dottor Jazz e Mister Funk” per fare una di quelle liste da perderci intere giornate, oltre che una buona dose di dignità. Ma di dischi difficili e belli non se ne si trovan mai abbastanza. C’è da dire però che l’anno appena passato, durante il quale la gente ha pensato bene di guardare più ai morti che a quello che di buono facevano i vivi, è stato portatore di parecchi dischi molto belli, ma ora siamo nel 2017, bissare l’impresa sembra quantomeno complesso.

Anno nuovo, stessi artisti con le palle. Sì, perché il progetto Sun Kil Moon lo abbiamo lasciato a inizio 2016 con quel gran cazzo di disco scritto a quattro mani con Justin Broadrick/Jesu uscito a sua volta a meno di un anno di distanza dall’ultimo “Universal Themes”, altro gioiellone da sfoggiare ad un bel funerale. Mark Kozelek, il dispotico ed antipatico padrone di casa, si rimette al lavoro assieme al fidato ex-Sonic Youth Steve Shelley e dà alle stampe un nuovo lavoretto di pregio, come da copione pur senza seguirne uno.

Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood” è, infatti, un passo avanti al resto della produzione a firma Sun Kil Moon, e presenta considerevoli innovazioni del proprio sound. Quel che non cambia è l’essere prolisso del buon Mark, come ben dimostra sia il titolo di cui sopra che il folle minutaggio di ogni singolo brano, bensì il modo di strutturare ogni canzone. Strane e complesse costruzioni che puntano in ogni direzione senza fermarsi davanti a nulla.

Se sia stata l’influenza poliedrica e devastante di Broadrick a portare Kozelek a cambiare il proprio punto di vista non è dato sapersi, di fatto c’è che il rischio di fare l’ennesimo album spoken word ammantato di splendida americana era altissimo. Invece no. Parliamo di un doppio album, dunque il rischio è ancora più alto, ma a differenza di tanti colleghi che si sono gettati a capofitto nel duplicare il proprio operato e imprimerlo su disco fallendo miseramente, il duo centra in pieno l’intento di non annoiare mai cambiando sempre.

Certo, ci sono canzoni che possono diventare classici della produzione kozelekiana, come “God Bless Ohio”, che presenta un cantato memore del micidiale ed imprescindibile “Benji”, ma che butta lo sguardo più in là, oltre l’accompagnamento straziante alt-country di quell’album, stessa cosa si potrebbe dire della splendida “Window Sash Weights”. Poi arrivano le novità. Se lo storytelling classico di Kozelek si è sempre prestato all’accostamento con parecchi “cantastorie” del mondo hip hop, qui la similitudine si fa più che una semplice casualità. Il trittico “Chill Lemon Peanuts”, “Philadelphia Cop” e “The Highway Song” è una dimostrazione d’intenti precisa e ben delineata. Se nella prima delle tre il cantanto si snoda spedito su una base che a memoria ci rimanda a certe cosucce di Jah Wobble, la seconda ci porta in pieno ghetto, con tanto di rhymin’ di livello, raddoppi vocali, ritornelli che non stonerebbero su un qualsiasi brano di Kendrick Lamar e infine la terza ci butta mani e piedi in una selva di groove nero come la pece.

Un chiaro richiamo al primo Beck (ma anche a quello più hip hop) lo troviamo sulla stramba ed inquietante “Sarah Lawrence College Song”, con basso e batteria unici padroni della scena e stessa cosa si potrebbe dire della successiva “Butch Lullaby”, in cui la materia rap si fa ancor più pressante pur inframezzata da skit di sghemba outsider music. Inusitato il movimento indie delicato della semi up tempo “Early June Blues” che affiancata alla sboccata tirata pop “Bergen To Trondheim” fa il suo signor effetto. Delicatezze dal sapore indie-pop che continuano imperterrite su “I Love Portugal” ma che si infrangono ben presto su un’altra piccola perla outsider figlia di un Captain Beefheart qualunque come “Vague Rock Song”, pronta a fare il verso a tutte le schifezze pseudo rock atte a far ballare stuoli di cretini fino al mattino. Ultimo clamore arriva su “Seventies TV Show Theme Song” il cui titolo dice tutto con i suoi fiati funkeggianti, colorati di bianco anziché nero, che danno quel tocco che non ti aspetti da queste parti.

Sono riuscito nella solerte impresa di scrivere un papiro disumano. Penso che Mark Kozelek sarebbe fiero di me, non fosse che probabilmente odierebbe ogni singola parola che ho scritto. D’altronde il nostro è uno sporco lavoro che ci piace fare. Proprio come quello dei Sun Kil Moon.

 

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