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Viaggio Al Termine Della Notte

Papa M, Greg Graffin, Drab Majesty, Me And That Man: Viaggio al termine della notte #29

viaggio

“La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”

Questa è una delle frasi più celebri del romanzo Viaggio al termine della notte, scritto da Louis-Ferdinand Céline nel 1932.
A volte, non è solo la vita a perdersi in qualche frammento della notte, ma anche la musica. Con l’avanzamento dell’era tecnologica, la quantità di uscite musicali è aumentata notevolmente, portando tutti i vantaggi e svantaggi del caso. Uno dei principali svantaggi è proprio quello di perdere tante piccole perle musicali nella notte della rete. Viaggio Al Termine Della Notte è quindi una riscoperta di tutto quello che nei giorni o mesi passati, non ha trovato spazio tra le pagine di Impatto Sonoro e che vi viene proposto come il biglietto per un lungo viaggio musicale. 

PAPA M – HIGHWAY SONGS

(Drag City, 2016)

La vena creativa di David Pajo, in arte Papa M, chitarrista di quegli Slint sin troppo “dimenticati”, sembra tutt’altro che secca. Nonostante le vicende poco allegre che hanno recentemente contraddistinto la sua vita privata resta uno dei migliori compositori provenienti da quella generazione post rock / post hardcore di tardi anni ’80, primi anni ’90 attualmente in circolazione. Ce lo dimostra con il suo nuovo (sebbene sia dell’anno scorso, ma voi non formalizzatevi, tanto ve lo sarete già dimenticato) album solista intitolato “Highway Songs”, che si dimostra essere uno sfavillante collage di influenze, colonna sonora di un immaginifico road movie nel deserto. Lo spiazzante stoner/doom di “Flatliners” e della ferale “Bloom” (ricordatevi che Pajo è un fan degli Ulver, certe influenze sono ovvie), lo splendore acustico e toccante di “DLVD”, il noise arcigno e scomposto di “The Love Particle”, i tocchi ambient ed emotivi di “Coda”, l’indie-pop elettrostatico di “Walking On Coronado” e i muscoli come cavi scoperti della violenza ultra rock di “Green Holler” rendono interessante questo notevole lavoro di patchwork di linguaggi musicali rendendo complicato definirlo con chiarezza. Non si potrebbe chiedere di meglio.

GREG GRAFFIN – MILLPORT

(Anti-, 2017)

Seconda prova in studio senza i suoi Bad Religion per Greg Graffin (la prima fu lo splendido “Cold As The Clay” del 2006) che, lontano dalle masse di giovani e vecchi punk, si può dedicare al suo amore per la musica country e bluegrass. La splendida voce del prof si sposa alla perfezione con la musica roots degli Stati Uniti, muovendosi sicura e libera come non accade da un po’ di tempo nella band madre. Accompagnato in questo viaggio, tra gli altri, da Wickersham, Harding e Hidalgo jr. dei Social Distortion il nostro ci dona un album di classe indiscussa tra pallottole country rock (“Backroads Of My Mind”, “Too Many Virtues”), piccoli gioielli classic rock traboccanti epicità e “tempi andati” (“Lincoln’s Funeral Train”), bluegrass da festa danzante (“Millport”, “Making Time”, “Echo On The Hill”) e struggenti ballad per saloon polverosi (“Time Of Need”). Pur non toccando le vette emotive del primo lavoro in solitaria “Millport” è puro divertimento e spensieratezza senza tanti fronzoli. Di certo non lo consiglierei ad un fan sfegatato dei Religion, il che non è per forza un male.

DRAB MAJESTY – THE DEMONSTRATION

(Dais Records, 2017)

L’entità che si cela dietro il progetto Drab Majesty si fa chiamare Deb Demure ed incarna perfettamente lo spirito più algido degli anni ’80. “The Demonstration” è il secondo album di questa figura aleatoria e senz’altro teatrale, ed è un piccolo capolavoro di genere. Dietro al banco mix troviamo nientemeno che Joshua Eustis dei Telefon Tel Aviv (Puscifer, ex-NIN e via dicendo) e questo è il primo punto a favore di questo lavoro. I suoni dell’album sono, studiati ad hoc per dare al lavoro la giusta atmosfera di nostalgia senza eccedere troppo nel ricalcare il lavoro altrui (che so, di Ric Ocasek, per dirne uno). L’incredibile capacità di Demure di concatenare melodia, chitarre e linee vocali ad incastro perfetto è sorprendente e fa sì che il disco fili liscio liscio senza stancare mai. Questa bravura si riverbera su epiche batoste come “Cold Souls”, rafforzata dai cori eterei di Nicole Estille dei True Widow, sulle scarne mostruosità new wave di “39 By Design” e “Too Soon To Tell”, singolo dal refrain micidiale, e sulla ferina accelerazione post-punk di “Kissing The Ground”. Di genere sì, ma perfetto. Senza se e senza ma.

ME AND THAT MAN – SONGS OF LOVE AND DEATH

(Cooking Vinyl, 2017)

Lodevole il tentativo di Adam Darski, aka Nergal, frontman dei Behemoth, nel volersi allontanare dal caos black della sua band madre per questo nuovo progetto chiamato Me And That Man completato dal musicista inglese John Porter. Nergal ci prova anche e dimostra un’attitudine al canto di estrazione blues di un certo livello, come un Mark Lanegan (prendete la cosa con le pinze) senza il tipico posacenere posato sul fondo della gola.“Songs Of Love And Death” sarebbe pure un bell’oggettino (e infondo lo è) se non fosse pesantemente simile a tutte le influenze citate dal Nostro. Prima su tutte la presenza fin troppo ingombrante di Nick Cave come dimostrano le strascicate e al limite del “plagio” “Cross My Heart And Hope To Die” e “Magdalene”. Meglio quando la faccenda si fa più spedita tra Cash e inflazioni post-punk (“My Church Is Black”, “Better The Devil I Know”) e nel momento in cui i due mostrano muscoli country-rock e denti scintillanti  (“Love & Death”, “One Day”). Peccato per l’estrema somiglianza a tante altre cose, con un tocco di originalità in più avremmo stretto tra le mani qualcosa di veramente bello. Se fossimo a scuola il tutto si tradurrebbe in una tiepida sufficienza.

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