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Big Walnuts Yonder – Big Walnuts Yonder

2017 - Sargent House
psych / pop / alternative

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Tracklist

1. All Against All
2. Sponge Bath
3. Flare Star Phantom
4. I Got Marty Feldman Eyes
5. Raise the Drawbridges?
6. Read to Pop!
7. Forgot to Brush
8. Rapid Driver Moon Inhaler
9. Pud
10. Heat Melter


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I supergruppi più che un fatto vero e proprio sono diventati un concetto. Se, anni fa, un SG  poteva essere rara avis in un mondo di marchi registrati dalle uova d’oro, diventando a sua volta, data la rarità di cui sopra, un fenomeno atto ad attirare l’attenzione e, volendo, anche il danaro degli ascoltatori. Oggi si tramutano in concetti che ognuno traduce a modo proprio. C’è chi non li sopporta, chi li adora, chi non aspetta altro che escano e che seppelliscano le band di origine e via dicendo.

Superando ogni preconcetto ci si può trovare davanti a macchine macinasoldi composte da falliti senza possibilità di recupero (avete sentito della band che vede impegnati ¾ dei No Doubt + il cantante degli AFI, no?) oppure a gruppi nuovi e sfavillanti che comprendono personaggi che con il music biz non ci hanno mai avuto a che fare, ne mai accadrà, pronti a donarci il proprio punto di vista in ulteriori sfaccettature. È proprio qui che entrano in gioco i Big Walnuts Yonder.

Chi sono i signori che si nascondono dietro questo nome senza senso? La ricetta prevede Mike Watt, signore indiscusso dell’hardcore anomalo a firma Minutemen/fIREHOSE e di tantissime altre cose dimenticate/mai cagate da quelli che l’hc lo utilizzano solo per sentirsi meno soli grazie al branco, e Nick Reinhart, capobanda di quei matti col botto dei Tera Melos nonché occasionale compagno di merende dei Death Grips. I due si ritrovano nel 2008 con l’idea di formare una band ma è solo nel 2014 che la cosa prende piede, forti di due nuovi elementi mica da ridere: Nels Cline, mastro artigiano del non-jazz e partner in crime dei Wilco e quel grande di Greg Saunier, batterista dei Deerhoof e produttore di malattia musicale a 360°.

Così, quest’anno, i quattro cavalieri dell’Apocalisse anti-pop se ne escono con un bell’album omonimo per Sargent House, la giusta casa per i giusti pazzi. Il risultato? Una vera bomba. Direte voi: non è che ci tiran fuori qualcosa di inascoltabile, iper avantgarde casuale come tanti altri stronzi di siffatta provenienza? Ebbene no, miei cari miscredenti. Il disco è difficilino, lo ammetto, ma è pur carico di melodie canticchiabili e entertainment a tutto spiano, d’altronde questi quattro son bene dei mattacchioni (forse Cline un po’ meno). Quindi è easy listening? Ma neanche per le palle di Odino “regaz”, come direbbero alcuni “eroi” dell’indie nostrano.

Proprio il buon Nels non riesce a tenersi lontano dal fastidio noise di marca Adrian Belew e qua e là arrivano bordate di avant-jazz misantropico e allucinogeno, pronte a far schiodare gli avventori sprovveduti e bagnare gli amanti della materia Zorn/Frith/Frisell (Flare Star Phantom è un casino indissolubilmente fantastico). Piogge di elementi carissimi a Watt invece si rovesciano nelle orecchie a ogni piè sospinto, tra punky-folkish manate sbronze d’epicità (I Got Marty Feldman Eyes, titolo a sua volta epico), pop progressivo virato funky e di Police memoria (All Against All, Sponge Bath entrambe carezzate dalla bella voce di Reinhart), hardcore marcio fino al midollo in cui lo zampone dell’Iguana degli Stooges (ma anche dell’amichetto Henry Rollins) si fa sentire forte e chiaro (Raise The Drawbridges?), power pop scarno, scarnificato e scarnificante (Ready To Pop!, mica a caso), marcette folk/surf sollazzanti e oltremodo godibili (Forgot To Brush è dalle parti di una versione cosmica dei Beach Boys) e stronzaggini outsider da manicomio colorato (Rapid Driver Moon Inhaler, Pud  e la conclusiva Heat Melter farebbero la felicità di Captain Beefheart e dei fan di lunga data di Les Claypool).

A completare questo pittoresco ritratto di divertentissimo disagio ci sono altri due nomi che val la pena tirar fuori: al banco mix troviamo l’ex-Pere Ubu Tony Maimone mentre alle matitone che tracciano l’artwork quel grande, grandissimo che è Raymond Pettibone che col suo stile inconfondibile dona agli occhi quel che le orecchie chiedono per tutta la durata del disco. Un disco bello matto, bello e basta, che vi accompagnerà nelle giornate in cui non ci state dentro per niente e che vi metterà voglia di parlare al muro e raccontargli cosa vi turba. Lo faceva già Syd Barrett? E non vi sembra cosa buona e giusta?

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