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M’Importa ‘Na Sega #2: BEACH BOYS – “Hang On To Your Ego” (o “I Know There’s An Answer”)

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È giovedì ma io no. L’unica rubrica derubricata in partenza nasce in un giorno di neve fitta sull’appennino e di pioggia stronza dentro casa mia.
Per interrompere il conato di bestemmie in corso ho pensato di aver bisogno di fare una cosa bella e inutile.
Come questa, ossia raccontare attraverso particolari storie (quanto più possibile non troppo note) di musicisti, dischi, canzoni e concerti, prestando ad essi ulteriori spunti a tema, equivoci maldestri e ricami personali con pretesa assoluta di incompletezza e strettamente ove impossibile e fuorviante, come fosse antani.

M’Importa ‘Na Sega #2: BEACH BOYS – “Hang On To Your Ego” (o “I Know There’s An Answer”) e il culto dell’LSD di Brian Wilson

“I Know There’s An Answer”, contenuta nell’album Pet Sounds del 1966, è uno dei massimi capolavori dei Beach Boys. È la nona traccia sul disco e venne composta e prodotta da Brian Wilson su testi di Terry Sachen (all’epoca road manager del gruppo) e del cugino Mike Love. Ma di questa canzone non vi è ufficialmente traccia nella tracklist originale. Perchè?
Facciamo uno, due e anche tre passi indietro.
Sul finire del 1965 Brian Wilson, genio e leader estetico della band, provò per la seconda volta l’LSD, stavolta con una dose da cavallo. La cronaca di questa esperienza lisergica inizia con un evocativo richiamo di sirene vicine a un grande incendio, l’atmosfera riportata a quanto è dato sapere è da film dell’orrore e Wilson crede di morire, come poi riporterà testualmente:

“I was bathed in flames, dying, dying, and then the screen inside my brain went blank. I visualized myself drifting back in time. Getting smaller and younger. (…) I continued getting smaller. I was a baby. An infant. Then I was inside the womb. An egg. And then, finally, I was gone. I didn’t exist.”

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Naturalmente, anche a causa della relatività assoluta di certe esperienze che valicano i confini della mente, è impossibile sapere se trascorsi come questo determinarono le successive e pesantissime crisi depressive, paranoidi e psicotiche che avvolsero per i decenni a venire Wilson, costringendolo all’inattività artistica e all’abbandono delle registrazioni di Smile, album con cui Wilson sognava di cambiare il corso della musica popolare, avvenute un anno dopo rispetto all’inizio dell’escalation di esperienze psichedeliche cui Wilson si concesse forse fin troppo generosamente. Mike Love, principale oppositore della deriva acida di suo cugino, ebbe poi a ricordare quanto all’epoca Brian fosse già emotivamente fragile, reduce com’era da una prima crisi nervosa nel 1964: «Per il suo ego essere scosso dall’influenza della droga, oltre che dal carico di lavoro che si era autoimposto, era semplicemente troppo»; e infatti collassò sotto una fitta coltre di sogni inesauditi attraverso diversi bad trip.
Smile
, che sarebbe potuto essere tra vertici assoluti della storia della musica moderna, venne poi partorito con decenni di ritardo, nel 2003 (Brian Wilson presents Smile) mentre nel 2011 sono uscite le registrazioni originali (The Smile Sessions), anche se ancora appare assai controversa la vicenda che avvolge uno dei dischi più leggendari e misteriosi di sempre. Dal pensiero magico di Brian Wilson, che temeva che determinati brani potessero provocare incendi nei paraggi, alla sicura fragilità psichica in cui si trovava che fece crollare qualsiasi minimo equilibrio interno alla band. Inoltre, è fatto storicamente verificato che Brian Wilson si sentì battuto sul tempo dai Beatles di “Strawberry Fields Forever” quando ebbe occasione di ascoltarla per la prima volta all’autoradio.

Ma torniamo a Pet Sounds e “I Know There’s An Answer”.
La composizione fu dunque fortemente influenzata dalle droghe psichedeliche. A proposito di ciò, successivamente Brian Wilson affermò: «Si. Prendevo un sacco di droghe, ed ero dentro quel genere di cose. Penso che la canzone mi venne spontanea». In uno stadio di lavorazione preliminare il titolo della canzone doveva essere “Let Go Of Your Ego”; venne poi modificata a stretto giro di posta in “Hang On To Your Ego”, ma Mike Love si lamentò del fatto che la connotazione allusivamente allucinatoria della canzone non fosse nello stile dei Beach Boys: «Sapevo che Brian stava cominciando a sperimentare l’LSD e altri psichedelici. Nelle credenze più popolari legate alla droga si credeva che l’LSD distruggesse l’ego, come se fosse stata una cosa positiva. (…) Io non ero interessato a prendere acido e a sbarazzarmi del mio ego». Al Jardine ricorda che la decisione ultima di modificare il testo del brano fu comunque di Wilson, che si accorse che l’idea non si integrasse bene con la storia della band e le tematiche care agli altri componenti: «Brian era molto preoccupato. Voleva sapere cosa ne pensavamo noi. Per essere onesti, penso che ai tempi non sapessimo nemmeno cosa fosse un ego. Infine Brian decise, e disse: “Lasciamo perdere. Cambio il testo. Ci sono troppe polemiche”». Ed è così che finalmente giunsero al titolo noto a tutti, il capolavoro riconosciuto “I Know There’s An Answer”, previa qualche altra modifica minore al testo che però non intaccò del tutto il fascino drogato della canzone, mantenendo la strofa velatamente psichedelica: «They trip through their day and waste all their thoughts at night», così come la tematica della versione riveduta poi pubblicata su Pet Sounds resti comunque un utopico e speranzoso invito alle persone a vivere la propria vita nel migliore dei modi, senza ulteriori indicazioni circa l’ausilio presunto che gli acidi possono fornire in ciò. In seguito, “Hang on to Your Ego” è stata inclusa come bonus track nelle ristampe recenti in formato CD di Pet Sounds.

Ecco dunque la complessa e intrigante storia di una canzone che in molti hanno almeno orecchiato una volta nella vita dall’autoradio: «I know there’s an answer/ I know now but I have to find it by myself» recita uno dei ritornelli più belli (in entrambe le versioni) di uno degli album più incredibili di sempre, ingiustamente sottovalutato ed equivocato dalla generazione dei “figli della tv” italiani, che non conoscendo l’inglese e quindi non capendo i testi continuano a pensare ai Beach Boys come a una mera colonna sonora alternativa alla musica elettronica per storgersi briosamente a un falò sulla spiaggia. Ma a molti sfugge che quel disco, forse più di ogni altro, recita invero la fine della festa, l’approdo doloroso dagli infiniti sogni d’amore della gioventù all’amara constatazione della realtà dell’età adulta. Sussurrarlo a chi non vuol sentire può essere una buona idea, anche se a ben pensarci uno stuolo di danzatori da spiaggia convulsi su una delle tracce ballabili di Pet Sounds è la migliore scenografia possibile, poichè involontaria, di questa meravigliosa epica della disillusione.

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