Sarebbe lecito aspettarsi che, dopo due album allegramente divorati da critica e pubblico come The Blackening e Unto The Locust, Rob Flynn e soci abbiano pure diritto di rallentare i ritmi e abbassare i toni. Sarà anche per la brutta litigata con Adam Dunce, ultimo membro originale del gruppo cacciato a gennaio 2013, ma sembrava quasi che ci fosse un’area di discreta sfiga a influenzare il nuovo lavoro. Fa piacere scoprire che pure tutta la zella (come si dice da noi) del mondo non ferma la cavalcata furiosa dei quattro americani. Con dodici tracce e settanta minuti di durata, questo è sicuramente il loro album più ambizioso e realizzato, portando a fruizione la tecnica e la scrittura raffinate con fatica negli ultimi anni. Eppure, ciò non vuol dire affatto che Bloodstone & Diamonds sia un cosetta facile e digeribile, anzi, tutt’altro.
L’iniziale Now We Die potrebbe dare aspettative in parte errate su ciò che ci si aspetta, partendo con un violento accavallarsi di due orchestre che si rincorrono, riff a manetta e un testo leggermente infantile nel loro tipico stile “lite macho”. Ciò che sorprende del pezzo è il momento più melodico a metà, in cui per un brevissimo attivo Flynn si spoglia dei suoi soliti panni aggressivi, rivelando un tono scoperto, fragile, totalmente umano. Ci si rimane un attimo stupiti… ma sarà mica che i Machine Head hanno intenzione di cambiare direzione? No, tranquilli, rimane lì isolato e non ne vedremo più traccia, purtroppo.
Il primo singolo estratto, Killers & Kings, si pregia della voce scardinata di Flynn e cori enormi che portano avanti il ritornello, non lasciando poi granché di memorabile. Molto meglio riesce la coppia Ghosts Will Haunt My Bones / Night of Long Knives, la prima un groove metal aggressivo arricchito da un tremendamente migliorato Dave McClain alla batteria e un ritornello con una serie di controcanti sorprendenti, la seconda , ispirata alla “fatal family” di Charles Manson, superata una breve intro abbastanza inutile, si conferma uno dei pezzi più cattivi e aggressivi mai realizzati dai quattro, senza però perdere una certa orecchiabilità e con un intrigante lavoro di produzione dietro.
Il mio momento preferito, però, è senza dubbio Sail into the Black, specialmente grazie a una prima parte melodica strepitosamente densa; un coro tibetano da brividi e Rob che sussurra poche amare linee e una seconda metà che si muove con tutta la delicatezza di un tornado che lentamente si acquieta.
Altro pezzo da novanta, da far invidia ai Bad Religion, liricamente parlando, è l’ottima In Comes the Flood, anticapitalista fino al midollo con un andazzo quasi nu-metal e un ritornello trascinante, più un assolo pulito e preciso. Damage Inside è la breve pausa melodica necessaria a riprendere fiato, sembra quasi una cover degli Stone Sour, non che questo sia necessariamente un difetto.
Game Over avanza con Flynn che sputa liriche al vetriolo a 300 all’ora manco stesse cantando Surfacing, poi il pezzo si ferma e lentamente torna verso la rabbia più pura con una performance del nostro che mostra splendidamente l’evoluzione vocale negli ultimi anni.
Forse potremmo lamentarci dell’eccessiva quantità di carne al fuoco, ed è pure vero che a differenza di The Blackening, non c’è certamente niente qui che possa convincere uno scettico dei Machine Head a cambiare idea. Su Bloodstone & Diamonds, i nostri fanno quel che gli riesce meglio, lavorando specialmente sulla scrittura e tecnica, senza buttarsi a pesce alla ricerca di un’epicità necessaria, probabilmente il peggior difetto del precedente lavoro.
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