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Interviste

Intervista a IL PAN DEL DIAVOLO

Dopo una stagione costellata da grandi presenze, come Ministri e Calibro 35, passando per Skiantos e Giorgio Canali, il Karemaski di Arezzo, ultimo spazio live della provincia toscana, ha concluso la sua storia con lo show de Il Pan Del Diavolo, duo siciliano formato da Alessandro Aloisi e Gianluca Bartolo.

Dopo l’ep omonimo del 2009, Il Pan Del Diavolo ha esordito l’anno seguente con l’album Sono All’Osso, spiazzando pubblico e critica attraverso canzoni fulminanti costruite su chitarre acustiche e grancassa.

Alessandro Aloisi, l’altra metà delle chitarre e voce del gruppo, nonché ideatore del progetto, ci attende al locale nel tardo pomeriggio, poco dopo aver terminato il sound check; simpatico e rilassato, ecco di seguito la lunga chiacchierata che abbiamo fatto con lui.

a cura di Giulia Antelli

Cominciamo da stasera: non più in due, ma accompagnati dai Criminal Jokers, quindi, facendo due conti, oltre a chitarre e grancassa, anche basso e batteria. Ci spieghi questa scelta di allargare il vostro organico solo per un tour?
Il progetto de Il Pan Del Diavolo nasce come duo, e la scelta di trasformarlo in un quintetto, come hai sottolineato tu, solo per un tour, è una sorta di paradosso rispetto alla nostra filosofia, quella con cui siamo nati, almeno; ma dato che noi andiamo parecchio d’accordo con i paradossi, ci è sembrata proprio una bella idea quella di riarrangiare i brani in versione rock ‘n’ roll con i Criminal Jokers. Nulla di più.

Quindi i fan possono rimanere tranquilli? Nessun stravolgimento?
I fan davanti al cambiamento sono sempre molto delicati (risate), però il cambiamento, in questo caso, è capillare, è stato solo per un tour, e domani ci sarà l’ultima data. Comunque, spero che la forza del gruppo non risieda semplicemente nello spettacolo fatto con due chitarre; abbiamo trovato, con due chitarre e la grancassa, una maniera di arrangiare le canzoni che sia il più sincera possibile, e questa è un po’ la nostra filosofia. E continueremo a cercarla anche in futuro, anche se dovessimo allargare la formazione, dato che stiamo facendo delle prove con altri musicisti, che sono Diego Sapignoli e Antonio Gramentieri, cioè la chitarra e la batteria degli Hugo Race. Possiamo anche continuare in due, ma non mi pongo nessun limite: in questo momento sentiamo la necessità di esplorare nuove atmosfere sonore.

La prima canzone che ho ascoltato di Sono All’Osso è stata Farà Cadere Lei, e quello che mi ha immediatamente colpito è stato il vostro sound: ultra diretto, fortissimo, e, allo stesso tempo, molto originale. E siete soltanto in due, per l’appunto. Mi verrebbe quasi da dire che le vostre canzoni siano come delle pietre, le lanciate e colpiscono dirette e precise le orecchie di chi ascolta. Era questa la vostra intenzione? Anche pensando al live, dato che ho sentito che i vostri show sono piuttosto esplosivi…
Le canzoni sono state scritte con l’intenzione di essere il più dirette possibili, e nella scrittura, negli arrangiamenti, ci sono dei trucchi affinché i pezzi risultino tali. Non c’è una particolare orchestrazione, anche se nel disco sono presenti vari strumenti; però è una sensazione molto istintiva, che va dedicata ad alcuni brani. Per esempio, Farà Cadere Lei è un pezzo non-sense, perché la canzone io l’ho scritta immaginandola in un modo diverso rispetto al modo in cui scrivo di solito. Inoltre ha uno stile tutto suo, nella scrittura, nel cantato, nel testo; il testo è più immaginifico che altro, perché lo scopo, in alcuni brani del disco, è stato quello di creare un immaginario unico con elementi diversi. Comunque, per quanto riguarda il live, è vero, si dice questa cosa, che noi siamo bravi dal vivo, io però posso dirti soltanto che la cosa più importante, per me ma anche per Gianluca, è quella di essere totalmente immerso nello spettacolo, di essere coinvolto e di riuscire a coinvolgere le persone, perché è quello che voglio fare. Ovviamente cerco di non scadere mai nell’assurdo, bisogna tenere i piedi per terra, si tratta di un concerto, però ti assicuro che ne abbiamo fatto tanti con davanti dieci persone, quindi non mi sono mai gettato sul pubblico a caso (risate)!

E per quanto riguarda la collaborazione con gli Zen Circus per Bomba Nel Cuore? Svelaci qualche retroscena.
Ci siamo conosciuti al Rock Island Festival, poi loro mi hanno mandato un’email con scritto: “Non so se ve ne frega un cazzo, comunque abbiamo sentito l’ep, complimenti!” , al che io ho risposto: “No, anzi, mi fa piacere! Ci vediamo presto…”. E poi, fin dalla prima sera che ci siamo visti, diciamo che sono stati abbastanza fuochi d’artificio…

Praticamente, è stato amore a prima vista…
Quasi. Nel periodo in cui abbiamo aperto il loro concerto di presentazione dell’album Andate Tutti Affanculo a Milano, noi stavamo registrando il nostro disco alle Officine Meccaniche, quindi li abbiamo invitati il giorno dopo a suonare Bomba Nel Cuore. E in mezza giornata abbiamo tirato su questo pezzo di un minuto e venti. Comunque, la collaborazione tra Il Pan Del Diavolo e gli Zen Circus continua, perché noi abbiamo fatto un guest nel loro disco nuovo.

So che ti piacciono molto Buscaglione, Ghigo Agosti e Tenco. Quanto conta il tuo passato musicale al momento di scrivere le canzoni?
In passato ho metabolizzato questi artisti, e metabolizzarli significa conoscere i testi e il modo in cui hanno scritto, perciò, nel momento in cui tu ti metti a scrivere le tue canzoni, hai già una tua formazione, e questo ti aiuta. Tenco ha scritto delle cose incredibilmente sincere, vere, con una scrittura sempre con i piedi per terra, Buscaglione invece racconta fantasie, scenari, è grottesco, anche, mentre Ghigo Agosti urla; io mi sono formato con quelle cose lì, anche se ovviamente esiste un sacco di altra musica che ascolto, che ho metabolizzato e che conoscerò in futuro. Comunque, ora che è passato un po’ di tempo dalla uscita di Sono All’Osso, e che l’ho vissuto sia mentre lo scrivevo sia mentre lo registravo, sia dopo averlo portato per un anno e mezzo in tour, posso dirti che dall’esterno, dato che adesso mi sento proprio più all’esterno, riconosco che anche se non ero io a citare queste influenze ma altri, effettivamente sono giuste. Personalmente, ascolto un sacco di cose, che sono le musiche che mi arrivano più vicino all’animo, poi qualcosa la prendo e la approfondisco e qualcos’altro no, perciò ci sono mille modi di essere influenzati. Per esempio, puoi prendere l’ultimo disco di Mark Lanegan e sentire come è stato prodotto, come è stato registrato, come sono mixati gli strumenti e tutto il resto, però non per forza nelle tue canzoni arrivi a parlare di cose oscure o di suicidio…

…O di droga.
Esatto. Si può sentire come Nina Simone suonava il piano o il modo in cui raccontava storie religiose, si può prendere quello spirito e quell’intenzione senza però suonare il piano e senza parlare di storie religiose.

Leggendo qua e là, il genere che ricorre più frequentemente quando si parla di voi è folk, spesso accompagnato da garage o punk. Ma quando uno pensa al folk, possono venire in mente un sacco di cose diverse: a me, per esempio, il primo che viene in mente è Nick Drake, oppure anche un certo new folk americano. Cosa ne pensi di questa definizione? Come ti poni rispetto a questo folk di cui si parla tanto?
Etichette a parte, dato che la stampa ha bisogno di dare delle etichette, io penso che folk vada bene, nella definizione generale, e mettigli accanto rock ‘n’ roll, garage, punk, tutto quello che vuoi. Le etichette esistono, però le differenze tra generi come rock, indie, garage, folk, alternative, sono sempre più labili. Non saprei effettivamente cosa dirti al riguardo, senz’altro in noi esiste una radice folk, e se ci hanno messo dietro questa etichetta, alla fine non è che mi dia più di tanto fastidio. Comunque, di fatto, due chitarre acustiche creano quello, nel senso che due chitarre acustiche non possono che fare folk; e se gli metti accanto una grancassa e un sonaglio, l’idea rimane quella, e si cala perfettamente nell’immaginario folk. Ovviamente, se dici folk ci vengono in testa a te Nick Drake, a me anche un sacco di cose più squallide, anche se per quanto riguarda noi, forse, possiamo dire che abbiamo iniziato a correggere un po’ la definizione.

A me viene in mente molto altro ancora, per esempio i Grizzly Bear, che in quanto a sonorità hanno poco a che fare con tutti gli esempi che abbiamo elencato finora. Questo per dire che ci sono tantissime cose del tutto diverse l’una dall’altra; inoltre, quando io penso a folk, mi viene in mente anche il folclore, e quindi il significato si allarga ulteriormente.
Per quanto riguarda folk/folclore, la radice è quella: folk significa passato, e le chitarre acustiche comunque non sono sicuramente uno strumento moderno. La nostra idea, poi, è sempre stata quella di una comunicazione diretta, perché folk è la musica popolare, è la musica sociale, la musica non imposta nei negozi dalla discografia. È una cosa che viene prima, e quindi sì, la nostra intenzione potrebbe essere quella.

La vostra etichetta è La Tempesta, fondata da Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, una sorta di ultimo baluardo della buona musica italiana che, oltre a voi, comprende nomi come Il Teatro Degli Orrori, Moltheni e Massimo Volume, solo per citarne alcuni. Pensando a quest’epoca di download, crisi del mercato discografico e televisione-spazzatura, come giudichi la situazione della scena musicale italiana?
Intanto, La Tempesta è una cosa nuova, ed è davvero un baluardo, un nuovo baluardo, perché si tratta della prima etichetta indipendente nata dopo che la discografia è morta. La Tempesta ha avuto il merito, secondo me, di prendere gruppi che altrimenti non avrebbero avuto spazio in un mondo discografico come quello di oggi. Tornando alla situazione musicale dell’Italia, trovo che la scena italiana sia nuova, neonata, in un certo senso, sia dal punto di vista dei musicisti quanto della scrittura. Nel corso del tempo ci sono stati diversi esempi di embrioni musicali, negli anni 80 potevano essere i Litfiba e i Diaframma, negli anni 90 i Marlene Kuntz e gli Afterhours, negli anni zero cose nuove e diverse tra loro. Comunque, ora la scena non la fanno più i dischi, ma il pubblico, fortunatamente, perché prima un disco ti veniva messo davanti, dovevi leggere per forza le recensioni e dovevi ascoltare per forza quelle canzoni, dunque ti veniva imposto, in un modo o nell’altro, e io stesso sono cresciuto così. Oggi invece il pubblico sceglie di premiare un artista comprando il suo album o andando ad un suo concerto, e lo fa sempre a modo suo, a sua discrezione, e secondo me questa è una cosa positiva. Tuttavia, il futuro della musica mi è difficile immaginarlo, anche se cerco di capirlo ogni giorno. Vedo che ci sono dei gruppi nuovi molto validi, a me per esempio è piaciuto un sacco Iosonouncane, e sicuramente verranno fuori altre cose interessanti; sta al pubblico italiano rinnovarsi nel tempo, e fra dieci anni aver dato diffusione a cose diverse rispetto al mare immenso di Giusy Ferreri. Dico lei ma potrei dire altri nomi; lei non è colpevole di niente, è solo un esempio di quello che ti dicevo prima, del fatto che un prodotto ti viene imposto. Però è anche vero che adesso ci sono più di persone che possono scegliere cosa ascoltare, e questo è sicuramente uno dei lati positivi del download.

Quindi secondo te c’è una possibilità per la musica italiana?
C’è una possibilità, e penso che la stiamo creando noi. È tutto in divenire, e ovviamente faccio il tifo per questo campo. Io vengo da Palermo dove ci sono solo due live club, di cui uno paga al massimo centocinquanta euro ed è una stanza di un metro per due; ora che vivo a Pisa ci sono più locali, a Milano ce ne sono ancora di più, anche se diversi hanno chiuso, come la Casa 139 o il Rolling Stone. Può essere che, come è cambiata la discografia, possa essere cambiato il circuito del live e dei circoli ARCI. Possono fare quello che vogliono, però io sono convinto che fino a che ci sarà un artista che suona insieme a gente che lo va a sentire, questa cosa funzionerà sempre, sopravvivrà.

a cura di Giulia Antelli

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