“Blue Lines” è uno di quei dischi dopo i quali la musica non è più stata la stessa; uno di quei dischi che mentre fondano un genere, già lo trascendono.
“The Clash” è l’atto fondativo della “unica band che davvero importa”, come vennero definiti, perché dicevano le cose rilevanti per i giovani emarginati del Regno, prima toccati dalla depressione laburista e poi dal rigore thatcheriano
“Dig Your Own Hole” ha svoltato tutto e di più, un disco che divide in due una società, mettendo da una parte l’idea e la bellezza della tradizione e la paura di andare avanti, e dall’altra invece c’era chi stava mettendo le basi per la musica del futuro
I Pitchshifter si reinventarono completamente per riproporsi come originali interpreti di un sound che, a metà strada tra The Prodigy e Ministry, trasponeva in musica quel senso di frenesia, caos e rischio che caratterizzava i pionieristici giorni del Web 1.0
“Quello che non c’è” mi dà la sensazione di comprendere appieno, finalmente, a che frequenza avrebbe dovuto battere il mio cuore quel giorno di tanto tempo fa. È un disco adulto, maturo, una vera transizione che di musicale ha in sé un cambiamento ma che parla di crescita umana e della sua caduta
Per Kathleen Hanna il vero male del punk rock statunitense si chiama mascolinità tossica. La rete di femministe militanti che ruota attorno al microcosmo Riot grrrl lotta per distruggere un ciclo reazionario che minaccia ogni singolo aspetto della vita della scena: dalla violenza dei concerti alla virilità malamente ostentata da alcuni frontmen, passando ancora per gli abusi e l’emarginazione pressoché totale delle donne. Catene da spezzare con la forza di un sound dirompente, grezzo e incisivo
“Up In It” è un’opera incompiuta, che regala senz’altro momenti ispirati che, riascoltati oggi fanno ben intuire la grandezza che sarebbe venuta dopo
Non si può etichettare con un solo genere il disco, Prince spazia per diversi generi creando sedici brani, che si amalgamano perfettamente tra di loro creando un mix che non stanca mai.
Scott Weiland, dietro al volante, lontano dal grunge, dal successo commerciale, lontano da tutto, dimostra di essere molto di più del canonico cantante maledetto di una rock band di successo, dimostra di essere autore e artista sperimentale
È forse proprio “Like Swimming” il vero canto del cigno dei Morphine. Un cigno nero, bellissimo e dalle ali meravigliosamente spiegate.
Questo album è la classica voce fuori dal coro che nella sua stonatura racchiude la vera essenza del disagio, della vera solitudine. Quella pura rabbia ancora più estrema e immune ai dettami delle major.
“Vintage Violence” era elegante e sofisticato senza rinunciare alle sottili nevrosi di chi aveva imparato quelle due o tre cose sul rock’n’roll nel sudiciume e la spazzatura della giungla metropolitana.
“For Your Pleasure” è un album essenziale, una dichiarazione di intenti di un gruppo di 5 giovani scapestrati inglesi: glam, prog, punk, elettronica sono alcuni dei fili che attraversano il lavoro, creando un incrocio che bisognerà pure cominciare a studiare nei libri di storia.
Specchio autentico del carattere di una band agitata da difficoltà interne e soprattutto private, “Songs Of Faith And Devotion” riesce a graffiare e avvolgere con denti aguzzi e spire degne del più flessuoso serpente.
“Overkill” rimane un titolo molto evocativo per gli amanti del genere, e dopotutto è uno dei migliori riconoscimenti attribuibili ad un album.
Un artista autenticamente “progressivo”, a tratti avanguardistico, ma sempre coerente con la sua missione di portare la musica agli umani e portare in Italia quello che non c’era prima di lui e che forse ancora non c’è: l’apertura mentale nell’arte. In questo filo evolutivo, “Don Giovanni” è un tassello importante, uno stupendo momento di transizione.
“Symbolic” si consegna alla storia come un patrimonio musicale preziosissimo che veste la sua aggressività intrinseca con una delicatezza ed un’eleganza rara, rendendo il giusto tributo all’immortalità artistica di un musicista la cui mancanza continuerà ad avere quel sapore amaro e triste, per sempre
“I Do Not Want What I Haven’t Got” era un grido di emancipazione, un attestato di fede, un’invocazione d’amore. Sinéad O’Connor era una Regina in lacrime con il mondo ai suoi piedi.
Un’entusiasmante cavalcata che si pone tanto alle fondamenta del metal di lì da venire, quanto ad omaggio di un folk-rock che nel 1971 cominciava ad esaurire il suo momento di gloria
Questo lavoro fin dal principio è stato e può essere tutt’ora considerato come una lettera che Cohen ha scritto per tutti noi, un inno alla speranza, alla continua ricerca di quella luce in fondo al tunnel, una gloriosa rivoluzione umana da prendere come esempio