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Interviste

Intervista ai FLUXUS

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Qualche settimana fa è uscito “Tutto Da Rifare” (clicca qui per la nostra recensione), omaggio ai Fluxus realizzato da Mag-Music e V4V Records, bellissima compilation all’interno della quale molte delle più interessanti band del panorama indipendente italiano rendono onore ad una delle realtà fondamentali di tutta la scena alternativa. Marnero, Chambers, Miriam Mellerin, Titor, Nient’Altro Che Macerie, giusto per fare qualche nome.
Abbiamo colto la palla al balzo e abbiamo scambiato quattro chiacchiere proprio con i Fluxus.

Oggi sono contento. Perché è assurdo. Avevo sedici anni e compravo un giornale in edicola, Rock Sound se non sbaglio, con allegato un bel dischettino. E dentro questo misero compact disc ci ho trovato voi Fluxus. Il brano del “fulmine a ciel sereno” per la mia povera giovine testa era “Nessuno si accorge di niente”. E il testo era ciò che cercavo. La musica manco a parlarne, scapocciavo col walkman piantato nelle orecchie. Non le cuffie, proprio il walkman. Ma l’epoca in cui sarei potuto andare ai concerti era lontana ancora un paio d’anni, e nel negozio di dischi (ora chiuso e strachiuso) della mia cittadina del cazzo non poteva offrirmi il vostro disco omonimo. E allora ho atteso. E ora sono qui ad intervistarvi. E allora facciamo una cosa: diamo ai giovini, come lo fui io, che vogliono scoprirvi l’opportunità che io non ho avuto? Chi sono e cosa sono i Fluxus?
Mah, intanto i Fluxus sono un gruppo, rock (forse), o punk, o quello che vuoi, che ha cercato di sfuggire allo stereotipo della ‘band’, dei ruoli predefiniti, della tiritera ‘disconuovo-tour-disconuovo-tour’ da similrockstar de noantri. Sinceramente non so se ci siamo riusciti, visti i dischi-tributo e i “riunitevi vi prego”… comunque va bene così, siamo contenti che in un modo o nell’altro qualcosa si sia trasmesso anche alla tua generazione, anche se mentre facevamo le cose non ci siamo posti il problema di lanciare messaggi universali. O meglio: non avevamo vocazioni profetiche ma ci interessava parlare di temi universali, questo sì. E politici, sicuramente, ma senza slogan, cercando piuttosto di scavare nell’ipocrisia.

Com’è stato venir fuori da una realtà in cenere come quella hardcore italiana di fine anni ottanta? Cosa vi ha spinto a scandagliare così a fondo animo umano e disgregazione sonora andando così lontani da ciò che era appena stato musicalmente nel sottosuolo italiano?
A differenza di quello che leggiamo in giro, recensioni, biografie, non abbiamo avuto nessun particolare legame con la scena hardcore, l’abbiamo vissuta come tanti altri in quel periodo. Piuttosto eravamo legati al concetto del punk come modalità, prima che come suono, di collettivo, al rifiuto del conformismo. Musicalmente eravamo influenzati da un sacco di cose. Assorbivamo anche un sacco di cose: sicuramente all’inizio (ma l’inizio vero, ben prima del primo disco) eravamo uno strano miscuglio di punk, Pixies, prog addirittura e of course il primo grunge di allora, anche se non volevamo sentircelo dire. Forse la nostra chiave musicale l’abbiamo trovata quando abbiamo scoperto di poter suonare del punk lento, geometrico e molto stratificato e massiccio, sommando strumenti e persone. Eravamo precisi, meccanici, ma ugualmente vivi. Le parole erano sempre state lì, anche se sono diventate più lucide a partire dal secondo disco. Ecco, su “Non esistere” abbiamo inglobato davvero l’hardcore come esperienza, grazie sopratutto alla presenza di Marco e Tax. Anche se in realtà anche lì i Fluxus non suonavano hardcore.

Di disco in disco il vostro approccio all’obliquità musicale è andato tramutandosi pur rimanendo fedele a sé stesso. Che influenze sono cambiate negli anni?
“Pura lana vergine” è un disco orchestrale, tutto è sempre al massimo della potenza. Nei momenti più ‘tranquilli’, che sono pochi, suonano sempre almeno tre strumenti. La voce è onnipresente, e dice un sacco di cose. Urla, perchè era l’unico modo per renderla credibile su quell’oceano di riff mettendola sullo stesso piano di 5 strumenti a corda e una batteria. Sicuramente non ci interessava la sintesi in quel momento, quanto piuttosto l’accumulo di tensione.
Direi che sopratutto con il maialino abbiamo recuperato il gusto per la sfumatura che avevamo all’inizio, prima di “Vita in un pacifico nuovo mondo”. E’ venuta fuori la voglia di usare la rarefazione, la melodia, oltre all’abrasione violenta. Questo è accaduto anche perchè in definitiva quel disco lo abbiamo fatto in tre, e non cercavamo più solo la potenza di “Pura lana vergine”. Le parole però sono rimaste più o meno le stesse, le cose che ci interessava dire erano quelle. Anzi, forse i testi di “Fluxus” sono più acidi e duri di prima, però hanno in alcune canzoni una sfumatura più intima e personale. Musicalmente è un disco sicuramente meno monolitico degli altri. E’ ricco di colori diversi, o forse di diversi toni di grigio.

E ora veniamo al disco che vi tributa ossia “Tutto da rifare”. Siete stati coinvolti direttamente nel progetto?
Non ci siamo fatti coinvolgere molto, era giusto che chi lo stava facendo facesse quel che gli pareva.

In questo lavoro sono coinvolti molti nomi della scena italiana, ora vi faccio la domanda “scomoda”, che interpretazioni avete preferito tra le tante in gioco?
Tutte. Nessuna. E’ davvero una questione di gusto personale, e noi rispondiamo come gruppo, non come singoli. A ciascuno piace una cosa diversa, per fortuna. Quello che ci piace è il gesto, il situazionismo del progetto, come di altri progetti fatti con passione. E’ un modo di non arrendersi all’aridità.

Prova d’immaginazione: chi vorreste sentire alle prese con il rifacimento di un vostro brano? Sbizzarritevi.
Un gruppo tedesco che fa folk tibetano cantato in spagnolo con strumenti ricavati da conchiglie. Oppure i Rolling Stones per i diritti d’autore. Sbizzarriti.

In questo tempo di macerie se vi guardate attorno cosa vedete nel mondo della musica indipendente?
In questo tempo c’è tutto, basta cercare. La musica però oggi è meno importante. Forse giustamente. Quello che preoccupa a volte è una certa passività, la mancanza di reazione collettiva. C’è una grande rabbia individuale, però stenta a venire fuori: con la musica e con la politica.

A undici anni da quel “Fluxus” che mi fulminò cos’è cambiato per la band Fluxus? Ma soprattutto: tornerete?
Per i Fluxus non è cambiato nulla. Siamo le stesse tre persone, solo più vecchie. Non dobbiamo tornare, siamo sempre qua che facciamo quello che riusciamo e che ci interessa e ci piace. Lo facciamo da soli e anche insieme, anche se non abbiamo più usato il nome ‘Fluxus’. Sarebbe bello che i nomi delle “bband” non fossero così importanti, che non ci fosse questa fascinazione un pò ridicola per il passato, che non si creassero gli stessi eroi, gli stessi miti, spesso finti, a ogni ricambio generazionale. E’ molto più interessante quello che si fa di chi lo fa. Comunque non è detto che non si decida di rifare qualcosa con quella sigla, visto che il gioco è questo.

E giunti al termine della notte (o dell’intervista) vi chiedo: qualcuno si è finalmente accorto di qualcosa?
Tutti ci siamo accorti di tutto, e ci fa paura. E per paura facciamo finta di niente, troppo spesso.

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