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Non c'è più il jazz di una volta

DAVID FIUCZYNSKI: Non c’è più il jazz di una volta (e sticazzi?) #3

jazz

Il jazz incravattato, impomatato, vecchio e sdentato.
Il jazz raccontato da chi nel club va ben vestito e pettinato.
Il jazz che copia paro paro i bei fasti di una volta.
Il jazz che non fa rivolta. Le buone maniere di chi non osa, e le cazzate sue mette in prosa.
Il jazz di chi vuol star comodo in poltrona.
Il jazz di chi, per raccontarlo, di inutilità fa una maratona.
Tutto questo qui non troverete. Solo il disagio dell’obliquo – vi sembrerò iniquo – vi racconterò.
Ciao.

“Topo Gigio sei veramente fortissimo! Potresti venire a distruggere un concerto jazz?” “Sì, certo. AAA” SDRSH.

Il jazz come anomalia del sistema è una bella immagine. Che essa sia concreta è evidente ai più ma prende davvero forma in rari ed eccezionali casi, nonostante questo insieme chiamato jazz sia il più zeppo e oberato di tutti i tempi (e c’è chi dice la stessa cosa dell’indie, ‘sticazzi).
Alle mie orecchie David Fiuczynski suona come una signora anomalia di questo insieme. Non a caso si fa chiamare Fuze, poiché con la sua chitarra fonde tutto ciò che si può fondere assieme, e talvolta anche ciò che difficilmente si può unire.

fiuczynski
Classe 1964, nasce in America ma si sposta in Germania all’età di otto anni, salvo tornare negli States a diciannove e iscriversi al New England Conservatory nel 3rd Stream Department fondato dal compositore, conduttore, storico, scrittore, musicista e chi più ne ha più ne metta, Gunther Schuller (il mister ha scritto qualcosa registrato poi da Eric Dolphy, Ornette Coleman e Bill Evans, c’è bisogno di dire altro?), dipartimento atto alla sperimentazione, all’improv e all’allentamento dell’orecchio. Che volete di più? Ad esempio che proprio al NEC Fuze incontra un mostro, ossia John Medeski, e gira e rigira, parla e suonicchia finiscono col donarci un disco che fa male e paura, ossia “Lunar Crush” (anno domini 1994), al loro fianco su diversi pezzi di questo dischetto troviamo un altro simpatico signore di nome Jojo Mayer che percuote le pelli senza sembrare mai umano, e ancora mi chiedo se effettivamente lo sia.
Il disco è la base di ciò che avverrà nell’immediato futuro, gli scape devastanti di Medeski, il funk atomico che si riversa nei lunghi assolo di Fuze che sembrano chiamare a gran voce i nomi di Scofield, Fripp e Hendrix e si riorganizza in textures micidiali che non lasciano scampo. A bazzicare a New York si finisce sempre col creare qualcosa e se a crearlo è gente così state pur certi che il risultato è di quelli che fanno indurire e così nel 1995 David da i natali agli Screaming Headless Torsos assieme a Fima Ephron (già al basso su “Lunar Crush”), Jojo Mayer (oh sì), al percussionista David Sadownick e all’ugola nera e bollente di Dean Bowman. 7

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Micidiale macchina da groove gli SHT propongono qualcosa di disumano, un misto assurdo di jazz maniacale ed elettrico, funk da sesso iperuranico e rap futuristico (succhiacela Fabri Fibra), il tutto riversato nel loro primo disco omonimo, in cui canzoni come “Vinnie” fan il verso ai Red Hot Chili Peppers (calci proprio, diciamo) fanno coppia con staffilate R&B come “Cult Of The Eternal Sun”. Ma è solo il punto di partenza. Il vero manifesto dell’anomalia di mr. Fuze arriva con il disco “Jazz Punk” del 2000, millennio nuovo, disagio ancor più evidente, jazz come linguaggio e punk come violentatore dello stesso, come a voler dire “io il jazz lo suono come cazzo pare a me”, e così è, al fianco di ambienti noise troviamo schiaffi elettrici e aberrazioni funkadeliche al fulmicotone , il violoncello di Rufus Cappadocia che incolla tutto e satura lo spazio.
Il violoncellista firma anche un bellissimo disco assieme a Fiuczynski dal nome “Kif”, lavoro che fonde le tinte purple di Hendrix a musica mutagena e mediorientale, i due strumenti si intrecciano e fondono le proprie anime (l’opening “Mektoub” ne è esempio portentoso) Le infinite influenze del chitarrista si riversano sempre di più nel suo lavoro, influenze a sua stessa detta provenienti prevalentemente al di fuori della sfera musicale: gli espressionisti tedeschi (e le textures che intreccia nei suoi dischi ne sono testimoni), Van Gogh, Matisse, l’architettura araba (e anche qui il risultato è evidente) e via così. A voler invece ritornare alla musica esprime, tra gli altri, amore e rispetto per Eric Dolphy, Nina Hagen e Rudresh Mahanthappa. E dopo essere comparso in più di 100 dischi (un altro che non sa stare fermo? A me piacciono così) è proprio con il sassofonista di origine indiana (ma nato a Trieste, e ‘sticazzi?) che ce lo ritroviamo in…

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=uAqCt-r0b0A[/youtube]

Rudresh Mahanthappa – Gamak (ACT, 2013)
Un suono pulito e cristallino per una serie di bastonate avant-jazz dal sapore esotico? Pronti. Le storture a mò di artiglieria pesante di “Waiting Is Forbidden”, l’oriente ubriaco di “Abhogi” in cui Fuze e Mahanthappa duettano in svisate dispari, hardbopperia sontuosa e sensualità sconnesse in “Stay I”, l’influenza Fiuczynskiana nella bastonata “”””punk”””” di “Majesty Of The Blues” e pure un bel solo di contrabbasso schizoide in “F”. Tutto qua.

P.S.: sembra che gli Screaming Headless Torsos stiano per tornare. Stay Tuned, stronzi.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=GY9kGwGiaqs[/youtube]

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