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Non c'è più il jazz di una volta

JAGA JAZZIST: i banditi del jazz

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Butta via il grammofono
Piantala col telegrafo
Con ‘sto swing ora basta
Voglio solo roba molesta
É questo il jazz che ho in testa

Il culmine della mia rubrica, in termini jazz-nonjazz, potevo raggiungerlo solo parlando di una creatura anomala come i Jaga Jazzist. Dopo anni di sbavo, sogni bagnati ad occhi aperti, dischi immensi e quella voglia di futuro che mi pervade sin dalla notte dei miei tempi (che cazzo dico?) sono riuscito a coronare il mio sogno di vederli dal vivo giusto settimana scorsa (li ho pure fotografati, già lo sapete, ma io ve lo dico di nuovo perché rompere le palle è il mio mestiere). E lì ho capito una cosa: no niente, non ci ho capito nulla, ero rapito come quando da bambino, a Natale, ho scartato un regalo e sotto l’orrida carta da regali con tanto di Babbi Natale stampati sopra ci ho trovato il Super Nintendo, ma mi sento di riportare qui una frase esemplificatrice: “questi ragazzi amano davvero i loro strumenti”. Forse ho capito questo. Che questa gente ama a tal punto ciò che fa (e con cui lo fa) da rendere il tutto estremamente tangibile se non, addirittura, magico. Quanti pensieri positivi, insomma, ma che cazzo volete?

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In Norvegia la spinta musicale verso lidi “altri”, verso un futuro ignoto, sembra essere pane caldo nel gelo generale. Che si parli di jazz oppure di black metal, il risultato è il medesimo o, quantomeno, lo era negli anni ’90 (salvo rari casi e questo è uno di quelli). C’era evidentemente la voglia di spezzare le catene dell’ovvietà e rendere il discorso del “crossovering” che si stava attraversando in quegli anni un qualcosa di non solo appannaggio statunitense. In un contesto in cui il jazz norvegese se ne andava a zonzo grazie alla ECM (e non solo) sulle ali di artisti come Jan Garbarek, Terje Ripdal, Jon Christensen e molti altri, alcuni giovini virgulti di Tonsberg, piccola cittadina ad una novantina di minuti da Oslo, decidono di unirsi sotto il nome di Jaga Jazzist (loro lo pronunciano “yaga yazzist” e significa “a chased jazz musician”, preferisco mantenere la traduzione anglofona, se non vi spiace). L’anno è il 1994 e a dare i natali a questa anomala big band sono Martin e Lars Horntveth assieme a Ivar “Ravi” Christian Johansen e nel giro di meno di due anni la prima incarnazione dei Jaga pubblicherà un primo album intitolato “Grete Stitz”, folle incubatrice di jazz di chiara derivazione ECMiana ma che presenta elementi rap alienanti, reggae, mattonate prog e math e chi più ne ha più ne metta. “La gente ha cominciato ad accorgersi di noi perché i Jaga erano davvero bizzarri e “Grete Stitz” era un album molto strano” – ammette lo stesso Lars – “Così abbiamo aggiunto parecchi altri show ad Oslo e abbiamo firmato per l’etichetta dBut, con la quale abbiamo pubblicato il nostro EP “Magazine” nel 1998”. Attorno al gruppo gravitano diverse figure che diventeranno pilastri della Norvegia nel mondo della musica obliqua negli anni successi, uno su tutti è Jørgen Munkeby (che di lì a poco formerà i suoi brutali Shining), che, assieme a Lars, si divide il compito di suonare il sassofono e comporre le assurde melodie contenute in alcuni dei migliori album della band.

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Pochi anni dopo Martin entra in contatto con la Smalltown Supersound, etichetta di base ad Oslo e casa di altri giganti da manicomio come Lasse Marhaug (aka Jazzkammer), Mats Gustafsson, Paal Nilssen-Love e via dicendo, e da questa collaborazione nascerà il vero e proprio debutto della band “A Livingroom Hush”. Questo album apre la porta al trombettista Mathias Eick, vero e proprio fenomeno dello strumento (che negli anni collaborerà con realtà come Ulver, Arcturus, Motorpsycho, Turbonegro e The Gathering, solo per citarne alcune), ma, soprattutto, al produttore Jørgen Træen. È proprio lui a spingere nella giusta direzione e a mixare assieme tutte le sfaccettature più disarticolate del gruppo: “Jorgen ha cambiato la band” – a parlare è Lars – “lui pensava alla musica da una differente prospettiva. Ha preso le diverse parti e le ha semplicemente cambiate, lavorando al computer, remixando.” A dargli manforte è il fratello Martin “Era perfetto per noi perché era davvero in grado di spingere con forza la musica in tutt’altra direzione.” Ed è proprio questo che troviamo in questo immenso album: un puzzle cosmico di elettronica, leggiadrie di sax dall’altro mondo (la coppia Munkeby/Horntveth è qualcosa di deliziosamente matto, sia dal punto di vista compositivo che meramente esecutivo), incastri drum’n’bass al limite del disastro e una prospettiva musicale inusitata, persino per loro, come conferma Lars dicendo “Questo album ha cambiato il nostro modo di suonare. Siamo diventati più attenti ai dettagli e alle dinamiche e sulle sonorità che si trovano sull’album.

Se il sound comincia a definirsi, e pur essendo “A Livingroom” un disco della Madonna (che ha venduto al tempo 15.000 copie nella sola Norvegia, fate vobis), il capolavoro del gruppo deve ancora arrivare, ma non ci metterà molto a palesarsi. Infatti, nel 2002, vede la luce “The Stix”, album che segna una linea tra i Jaga e il resto del mondo, finanche a sé stessi. Traeen è nuovamente il fabbro che siede sul trono atomico nella forgia dei norvegesi, ma questa volta a mostrare il nuovo volto al mondo è l’etichetta Ninja Tune, dalla quale il gruppo non si muoverà più, maestra della nuova ondata electro che sta investendo il mondo (da Kid Koala a Funki Porcini passando attraverso Amon Tobin e The Cinematic Orchestra). Il disco paga il dazio all’uscita di “Kid A” dei Radiohead (come d’altronde stiamo ancora facendo tutti, volenti o nolenti, a 16 anni dalla sua uscita) e affianca le sonorità figlie dei Tortoise (quasi recludendole in piccoli angoli di paradiso) al lavoro svolto dal signor Squarepusher, sfuriate di sax e chitarra che lasciano atterriti e synth che traggono linfa vitale tanto dagli anni ’80 che dal lignaggio fusion di Zawinul.

Jaga Jazzist

Lungi dal volersi accomodare sugli allori di quanto composto finora, i JJ cambiano completamente le carte in tavola. Il successivo “What We Must” volge lo sguardo alle melodie e all’idea di big band proprie di Duke Ellington, voli pindarici in salsa indie/Motorpsycho ed epicità da vendere. Cambiano anche i ruoli: Jørgen Træen consiglia al gruppo di lavorare con un nuovo produttore e così accade. Fuori lui (e, purtroppo, anche Munkeby) dentro Kåre Christoffer Vestrheim (che trovate dietro al banco mix dei Gluecifer). “Lavorare con Kare è stato grande” – ammette Lars – “ma mi mancava una certa “resistenza”, qualcuno che mi facesse vedere le cose da un lato diverso. Con lui condividevo un sacco di influenze e di gusti musicali.” Ciò detto l’album è un vero e proprio gioiello di “pop progressivo”, con anthem divenuti imprescindibili come “All I Know Is Tonight”, “Oslo Skyline” e “Stardust Hotel”, veri e propri cavalli di battaglia dell’ensemble. Il disco attira complimenti dal mastermind dei The Mars Volta Omar Rodriguez-Lopez, ciò nonostante la band si ferma e va in hiatus.

Ma non passa molto e il combo torna, nel 2010 sulle scene con un album difficile e ulteriormente maturo, ossia “One-Armed Bandit”. Per rendere chiare le intenzioni dei Jaga ad aprire il disco sono i 23 secondi suonati dai The Thing, trio jazzcore composto da Mats Gustafsson, Paal Nilssen-Love e Ingebrigt Haker Flaten, ed è subito festa. A rendere ancora più ricco il parterre di musicisti arriva il chitarrista Stian Westerhus, fenomenale compositore e drago delle sei/dodici corde, baritone o meno, non importa. L’album vede, inoltre, il ritorno a casa di Træen, a quanto pare figura troppo forte per essere rimpiazzata, che rende il suono di “One-Armed Bandit” qualcosa di incredibile. Il mix è, invece, affidato ad un certo John McEntire, vi ricordate chi è o dovete fare un giro su Google? Vi risparmio la fatica dicendo solo Tortoise. Secondo Andreas Mjos, ormai componente stabile dei JJ, l’album contiene “le migliori canzoni composte da Lars per i Jaga.” Come dargli torto?

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Dopo un fenomenale concerto impresso sul disco “Live With Britten Sinfonia” la creatura dei fratelli Horntveth pubblica il suo nuovo album in studio “Starfire”. Senza neanche farlo apposta siamo dinnanzi ad un secondo capolavoro dopo quel “The Stix” che ha segnato una linea di confine tra vecchi e nuovi Jaga. Lars racconta la genesi del disco in questo modo: “Il nuovo album, “Starfire”, è un lavoro in cui non abbiamo praticamente mai suonato assieme, nemmeno provato. È tutto “costruito”, una sorta di remix. Invece il precedente “One-Armed Bandit” era già totalmente scritto quando siamo entrati in sala d’incisione e sono servite lunghe prove per assimilarne i pezzi.” Nonostante la sua natura “sintetica” “Starfire” è un coacervo di sensazioni epiche e calore alieno, in cui le situazioni prog (più che una vera influenza di genere, un modo di costruire le varie scale melodiche) si mischiano al colore melodico proprio di “What We Must” creando qualcosa di nuovo. I titoli della title-track e di “Big City Music” hanno una genesi particolare: la prima prende il nome da una chitarra (anche se in fase compositiva titolo e contenuto musicale estremamente space-oriented diventano un tutt’uno), la seconda da un negozio di synth modulari a Los Angeles, nel quale il buon Lars ha comprato, giustappunto, un piccolo sintetizzatore.

In poche parole, in sette album e vent’anni (e più) di carriera, i Jaga Jazzist hanno reso una definizione fallace (come tutte le definizioni utilizzate da noi scribacchini) come “future jazz” qualcosa di tangibile, marcando la storia di un genere con un segno tra i più riconoscibili degli ultimi trent’anni. Non una cosa da poco.

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