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La dolce perfezione noir di “Adore”

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Raramente la risposta alla domanda “qual è il tuo disco preferito degli Smashing Pumpkins?” è “Adore”. Incomprensibilmente. D’altronde se lo chiedessero a me, beh, anche io non risponderei “Adore”. Incomprensibilmente.

Credo sia stato il secondo album della band di Billy Corgan che comprai circa 17 anni fa, subito dopo “Machina” e qualcosa mi disturbò. Viaggiare a ritroso è sempre difficile, d’altro canto, se poi si tratta di partire dal culmine di una carriera per fare passi “indietro” quando il suono di una band si stava formando, il tutto diventa ancor più disturbante e difficile.

Adore” è stato preso sotto gamba, lasciando un gran numero di fan della band di Chicago a chiedersi dove fossero finite le costruzioni alt-rock di “Mellon Collie”, l’epica elettrica di quell’album immenso, il suo essere barocco e tortuoso. Tutto scomparso, così com’è scomparso Jimmy Chamberlin dal suo sgabello. Cacciato per problemi legati alla tossicodipendenza e dopo la morte per overdose del tastierista live Jonathan Melvoin. Questo di certo è andato a colpire a fondo un sound che aveva come perno robuste sferzate di batteria, anche quando le acque erano più tranquille. Al posto di quel rock alternativo, quando non proprio estremamente hard, ora c’è qualcos’altro. Elettronica, baroque pop, oscurità e densa “leggerezza”. Inferno personale e liberazione dai dogmi. Schiavitù nell’oscurità, amore indefesso. Ma niente hard rock.

830.000 copie vendute negli Stati Uniti nei primi sei mesi contro le 4,2 milioni dei precedenti due album, uno scalino difficile da digerire per chi è sulla cima del monte Olimpo della musica alternativa. Questo non ha fermato Corgan dall’affermare che, pur sapendo sarebbe finita così, se avesse potuto tornare indietro avrebbe rifatto “Adore” nello stesso identico modo. Anzi, lo avrebbe reso ancora più opaco ed inarrivabile, difficile e scontroso. Più di quanto non lo sia già.

To Sheila apre ad un mondo nuovo ed oscuramente dolce. Completamente differente dalle ballad cosmiche firmate SP, è una canzone d’amore, è una canzone di distruzione/ricostruzione in mezzo alle macerie, malinconia e delicata, flebile. Non una opener. Questo credo sia stato il colpo di grazia definitivo agli hardcorer fan dell’ex quartetto. Le chitarre qui giocano tra compressione ed epicità, ora nascoste ora in esplosioni di getto, come ben dimostra Ava Adore – diventata presto una delle hit più amate, quindi addio critiche. La batteria diventa un semplice elemento decorativo che accompagna le scarne composizioni in perfetto equilibrio tra sintagmi elettronici e acusticismi di spinta, quindi che dietro il drum kit sieda l’ex-Filter Matt Walker o Jeff Waronker oppure Matt Cameron non fa differenza.

Minimalismi synth rintoccano come orologi rotti in Tear, trame elettriche scritte e suonate di fino si scontrano con melodie post-moderne in Daphne Descents, infiltrazioni dylaniane in salsa alt gridano sottovoce in Perfect, Once Upon A Time e The Tale Of Dusty And Pistol Pete, dolore e dolce disgrazia ultra pop si scontrano in Appels + Oranjes che somiglia molto da vicino agli U2 di quegli stessi anni ed è tutt’altro che un punto a sfavore. Il tutto culmina sul pianoforte toccante di For Martha, dedica che Billy dona alla defunta madre Martha Louise, ed è il brano più bello che abbiano mai scritto, senza se e senza ma a dimostrazione che oltre a ciò che sentiamo dobbiamo cogliere gli aspetti nascosti al di là di tutto. E qui ce ne sono a bizzeffe.

La dolcezza noir di “Adore” è impossibile da trovare altrove e definisce con la perfezione del silenzio un album che vent’anni dopo ancora muove corde invisibili commuovendo per delicatezza ed espressività. Anche se la risposta della domanda d’apertura d’articolo continuerà a non essere questa.

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