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Back In Time

“White Pony”: l’inevitabile trasformazione dei Deftones

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Decidere di rompere con il mondo che ti ha dato la luce, che ti ha portato sui palchi e che ha comprato ed adorato i tuoi dischi per un musicista è un modo per imporre la propria visione personale dell’arte in sé, per dimostrare coraggio e in qualche modo una forte dose di egoismo. Un egoismo necessario alla crescita.

Quando sul finire del 2000 mi recai al solito negozio di dischi per acquistare “White Pony” dei Deftones venivo da mesi intensi passati a sondare il mondo del nu metal e alla band di Chino Moreno, Stephen Carpenter, Chi Cheng, Abe Cunningham e Frank Delgado non ero avvezzo. Li scoprii comunque un bel po’ prima dell’acquisto del supporto fisico – al solito – grazie ad un video passato su MTV, una world premiere di Brand New, che mai mi deluse sino all’arrivo di Silvestrin. Ero da poco entrato nel mondo dei Radiohead – seppur ancora superficialmente – e ciò che sentii in quel brano sembrava essere un modo di ibridare quel mondo “alt rock elettrospastico”, duttile materia obliqua a tutto, a quello del crescente fenomeno nu, superandolo a destra e dimenticandosene una volta per tutte.

Tutto modo se “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista” – come cantava quello là – è il terzo ad essere la più grande gatta da pelare, il dilemma se continuare a tenersi buona la fanbase per rimanere sulla cresta dell’onda senza tanti sforzi oppure sbattersene e creare qualcosa che in primis piaccia solo ed esclusivamente alla band è forse uno degli interrogativi più intensi nella storia della musica. I Deftones, ovviamente, hanno propeso per quest’ultima ipotesi, forti di un successo che con “Around The Fur” li ha portati in giro per il globo – tra Ozzfest e compagnia briscola – ma che li ha anche fisicamente e mentalmente piagati. Da quel disco passarono tre anni e l’hype attorno al nuovo lavoro della band di Sacramento sembrava prendere forma di un enorme bubbone pronto ad esplodere, complici spettri e vizi.

Quando Change (In The House Of Flies) approdò nella world premiere di cui sopra penso che a molti fosse toccato l’infarto. Cosa stavano facendo questi cinque? Semplice: cambiavano le regole del gioco a loro piacimento. Mentre gli illustri colleghi andavano uniformando il proprio sound, il quintetto lo prendeva virandolo in qualcosa di radicalmente opposto pur non snaturandosi nemmeno per un nanosecondo, il che parrebbe essere fantascienza – un grazie probabilmente i ragazzi lo devono dire al produttore Terry Date la cui assenza oggi è più che udibile – ma che qui diviene inoppugnabile realtà.

Alla Maverick [etichetta al tempo di proprietà di Madonna, ndr] non venne neppure in mente di dare alcuna direttiva a Chino & co., li lasciarono fare in completa libertà e loro si presero il proprio tempo e una volta completato il tutto lo piazzarono sulla scrivania dei grandi capi e loro ne furono contenti ma – c’è sempre un MA quando si parla di soldi con i discografici, vero? – dissero: “Perché non prendete una canzone dal vostro album, che so, Pink Maggit e la trasformate in una bella canzoncina nu metal?”. Il gruppo altri resistette alla richiesta ma, alla fine – complice anche il milione di dollari offerto dalla casa discografica – cedette: “Ci guardavamo attorno e vedevamo band come Limp Bizkit e Papa Roach vendere milioni e milioni di dischi e noi al tempo non avevamo venduto nemmeno un milione dischi. Quindi abbiamo pensato che non avevamo nulla da perdere. Il disco era fuori, avevamo le canzoni che volevamo e allora in letteralmente un’ora di orologio abbiamo creato Back To School. È stato veramente veloce, volevo dimostrare quanto fosse facile scrivere una canzone rap-rock come quelle di tutte le altre band.” Chino si toglie questo sassolino dalla scarpa in un’intervista di un paio d’anni fa e dimostra di saper fare il lavoro altrui meglio di quanto le band di cui sopra siano mai state in grado di fare – soprattutto gli intercambiabili con chiunque altro Papa Roach.

Back To School infatti, se presa come metro di paragone con l’album, non c’entra assolutamente nulla ed è un mero esercizio di stile. “White Pony” è un gioiello unico ed irripetibile e racchiude in sé tutto ciò che nessuno aveva il coraggio di essere. Sintagmi elettronici intrisi di trip hop notturno (Digital Bath), aggressione e ferocia filtrate dalla consapevolezza dell’età che avanza (Street Carp), delicatezze romantiche arrivate dritte dal pianeta new wave (Rx Queen, Teenager) e disperate tirate all’arma bianca (Elite). E poi c’è Passenger. Il brano scritto assieme all’amico Maynard James Keenan è un capolavoro senza mezzi termini che porta guidatore e passeggero al limitare di due galassie gemelle (eterozigote) che si guardano intensamente da un lato all’altro dell’universo.

Oggi “White Pony” compie vent’anni e a riascoltarlo è evidente una cosa su tutte: nemmeno gli stessi Deftones sono riusciti a raggiungere in seguito così tanta maturità e self-consciousness e a tradurla in un album di siffatta bellezza e semplice complicatezza emotiva e morale passata attraverso il setaccio di un futuro a tinte fosche. Ma, soprattutto, che i cinque di Sacto sul carro nu metal non ci sono mai davvero saliti, salvandosi da un inevitabile schianto. Grazie a Dio o a chi per esso.

And I watched a change in you

It’s like you never had wings

Now you feel alive

 

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