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Back In Time

Back In Time: KORN – Follow The Leader (1998)

Questa è la storia di un tempo lontanissimo, il tempo di dischi della Madonna e di generi musicali esplosivi. Ma non tutte le band erano capaci di grandi cose. Soltanto alcune di esse osarono sfidare il proprio pubblico cambiando rotta, il nome di una di queste era: Korn.

Mi perdonerete per aver preso in prestito l’introduzione di “Hercules: The Legendary Journey”, non ho resistito e soprattutto per me gli anni ’90 sono anche questo. Volendo tracciare un ulteriore parallelismo con il famoso telefilm firmato da Sam Raimi se i Deftones erano chiaramente Iolao, obliqui e molto più fighi di chiunque altro seppur non quelli perennemente sotto i riflettori, i Korn sono sicuramente Hercules: sono stati i protagonisti indiscussi di un’intera stagione di grandi cose – e di vendite esorbitanti – ma deludenti sulla lunga distanza. Ok, la smetto.

Follow The Leader” compie ben vent’anni e noi lo ricordiamo non solo per essere un gran disco ma anche per essere stato esattamente il punto di rottura della band di Bakersfield con il proprio passato arcignamente virulento alla volta del nu metal più in voga sul finire del Millennio, ciònonostante fu comunque il disco migliore di quella genia che prendeva l’hip hop e lo faceva proprio, e non solo in senso lato – e con buona pace dei fan dei cuginetti Limp Bizkit e del loro sostanzialmente deboluccio e retorico “Significant Other”. Tutto questo mostrava come i Korn riuscissero a scrivere ed eseguire album uno diverso dall’altro, ognuno con una sua identità e senza il timore di portar via al pubblico ciò che voleva. Oppure come dei micidiali paraculi poiché, come dicevo prima, “Follow” è il disco più nu metal del gruppo, quantomeno fino a quel momento – i nostri ci torneranno successivamente per raschiare il fondo del barile.

Mi sono imbattuto per la primissima volta nella band capitanata da Jonathan Davis vedendo su MTV e totalmente per caso il video di Freak On A Leash, video che riprendeva l’artwork ad opera di Todd McFarlane e Greg Capullo e che mi lasciò visivamente rapito ma musicalmente interdetto. Ero piccolo e al tempo senza una costruzione di accordi barocca e micidiale non mi interessavo, tant’è che entrai definitivamente nel loro mondo solo ad “Issues” appena uscito. M’impressionò comunque l’idea di lasciare il compito di animare la propria musica nelle mani del padre di Spawn, fumetto che all’epoca mi rapiva e faceva ricredere sulla mitica posizione dell’anti-eroe. E proprio come degli anti-eroi i Korn si fecero carico del proprio malessere da rockstar alternative buttandolo tutto quanto su un disco.

La lavorazione di questa terza fatica in studio è stata battezzata infatti da una quantità di droga e sesso da fare invidia alle band glam metal degli anni ’80 – sembra infatti che le spese circa sostanze ed alcolici si aggirassero attorno ai 60.000 dollari -, ed è stata croce e delizia del quintetto. Delizia perché l’ispirazione nel disagio è pur sempre cosa buona per la resa dei brani di gruppi di questa risma, croce – lo so che state tutti pensando ad Head e al suo rinnovato amore per il Cristo – sicché la compulsiva dipendenza stava sgretolando i membri della band trasformandoli in qualcosa di irrefrenabile ed oscuro, e non in senso buono. Non una novità portata dalla fama, poiché Davis era – per sua stessa ammissione – dipendente da metanfetamine già durante le registrazioni di “Korn”, e così gli altri membri della band a stretto giro, al punto da tramutare le sessioni di registrazione in un eterno party di follia, arrivando al punto di farsi quasi sbattere fuori dallo studio a calci nel culo dal proprietario dello stabile e confondendo il lavoro dello stesso Ross Robinson.

Uscire da questa condizione non è semplice e lo stesso frontman non ha avuto modo di farlo nemmeno durante le registrazioni di “Follow”, incastrato in una spirale discendente che lo ha portato a rivalutare anche la propria posizione come rockstar, posizione che si suppone abbia a che fare con sesso e droga, ma che per il cantante null’altro era che negatività e malcontento: “La riabilitazione è cominciata dopo ‘Follow The Leader‘,” – ammette in un’intervista a Forbes – “Il primo disco che ho registrato da sobrio è stato ‘Issues’, ma quando siamo partiti per il Family Values Tour del 1998 ero già sulla strada della ‘guarigione’”. Qualche giorno fa in un’altra intervista Davis ha ammesso che durante le registrazioni dell’album e delle sue parti vocali non beveva, cominciava non appena staccava il microfono, ma ha anche aggiunto che spesso non le cominciava se il produttore non gli portava un po’ di cocaina.

Ovviamente questo è solo uno dei tanti aspetti collaterali che hanno battezzato il terzo album dei Korn – e tutto è tranne che una demonizzazione di droga ed eccessi da parte mia. La chiave di volta è stato il tempo che i californiani si sono presi per mettere insieme i pezzi. Al tempo Fieldy ebbe modo di dire che la fretta non sarebbe servita a nulla, nonostante i vari manager ne avessero parecchia per vedere la propria gallina dalle uova d’oro buttar fuori un nuovo disco da milioni di dollari d’incasso, e dunque la calma è servita a rendere “FTL” “un milione di volte migliore diLife Is Peachy‘”.

(Photo by Bob Berg/Getty Images)

Tornando per un momento all’artwork la sostanza dell’innocenza dell’età prepuberale sbattuta in copertina rimane come leitmotiv. La bambina che sembra gettarsi dalla rupe immortalata dalle matite di McFarlane e Capullo dimostra come i bambini siano la chiave di lettura ad ogni passo dei Korn fino a questo momento, e punto fermo dell’immaginario del gruppo. Il batterista David Silveria ammette: “Noi siamo come i bambini. Tutto parte da loro. La vita parte da loro. E noi ci sentiamo ancora dei ragazzini”. L’innocenza perduta continua a infestare la mente di Jon Davis e sembra non volersene scollare.

I cambiamenti arrivano altrove, soprattutto dietro al banco mix. Dopo la doppia con Robinson – inizialmente chiamato a fare da “vocal coach” di Davis anche qui ma che negli ultimi anni è stato additato dai componenti della band come un fratello benché il suo metodo di lavoro fosse estremo, violento ed esagerato, primo e forse più grande motivo di allontanamento – il gruppo decide che è venuto il momento di cambiare sound e dunque si affida ad un nuovo, eccellente team di produttori che vede alla barra di comando Steve Thompson, Toby Wright e Brendan O’Brien. I tre veterani danno al disco una nuova forma mettendo fuori fuoco l’estrema violenza sonica dei precedenti due album e risaltando una nuova componente melodica che trova la sua strada nella voce di Davis. Lo stesso cantante ammise che i demoni a causa dei quali aveva gridato in passato erano sufficienti e che era venuto il momento di esplorare nuove possibilità. Missione compiuta, poiché il male intrinseco ai testi viene perpetrato attraverso un uso della voce più sinistro, pur mantenendo un’integrità violenta e una quantità di grida non indifferente ma ponendole in secondo piano, come se fosse una parte minima di un insieme ben più costruito. Inizia una sorta di trasmigrazione del dolore in altri campi.

Ed è questo sound moderno, diretto e scintillante che dà corporeità ai 13 brani. A rendere ulteriormente particolare il tutto c’è il fatto che la numerazione dei brani parte proprio dalla tredicesima traccia (tutte le precedenti sono vuote e di pochi secondi), ed è un giochino in voga in quegli anni – vedi le 99 tracce di “Antichrist Superstar” di Marilyn Manson. Il tutto è chiaro sin da It’s On, che inizia serpeggiando e si apre in un’esplosione strabordante con le chitarre a fuzzare feroci e il basso che scala i palazzi. I testi, come premesso, non perdono ferocia ma prende piede la consapevolezza del potersi ricostruire attraverso i sentieri dell’autodistruzione, le grida restano disperate ma si fondono e confondono con una melodia anomala e immensa. È l’alba di un nuovo approccio, meno “storto”, più diretto e perciò ancor più incisivo.

Il singolo Got The Life vive in due vite distinte: da una parte il brano in sé, con le liriche tra le cui spire serpeggia la lotta e l’intenzione di riprendere in mano la propria vita, dall’altra il video e il suo significato intrinseco, ovvero un poco celato “fanculo la vita da rockstar”, che serve anche da catalizzatore per il nascente Family Values Tour, il carrozzone imbastito proprio dai Korn e comprendente tutte le maggiori promesse del nuovo metal nascente e non solo – Orgy, Limp Bizkit, Rammstein e il veterano dell’hip hop Ice Cube.

I manager che si masturbano al sol pensiero degli introiti, la bella vita, gli eccessi patinati, tutto distrutto e mandato all’inferno da una band che vuole recuperare le proprie radici, o almeno questo è ciò che dicono le immagini. Il regista del video Joseph “McG” Nichol in una conversazione con Billboard parla così della collaborazione: “Trovandomi coi Korn mi sono reso conto che erano una band hip hop che adorava l’hard rock e ho pensato che potesse essere interessante fondere le due realtà. A loro piaceva divertirsi nonostante trattassero temi così oscuri e il loro obiettivo era creare la musica più pesante possibile. Così abbiamo pensato di sovrapporre le due cose e creare qualcosa di più ‘giocoso’ perché è una cosa che nessuno si sarebbe aspettato dal loro sound”. McG svela inoltre che la Ferrari Testarossa distrutta nel video null’altro era che una Pontiac Fiero e che la prima volta che è stato tentato il trucco della catapulta la macchina si è malamente schiantata su un ponte.

Che l’hip hop abbia preso il controllo più di prima – “se non fosse stato per i Cypress Hill i Korn non sarebbero esistiti“, Davis dixit – diventa palpabile anche grazie ai vari featuring a partire proprio da Ice Cube che si dibatte sull’oscuro beat di Children Of The Korn e dispensa rime caustiche su un mellifluo reflusso di acido metallico e sintetiche espressioni di batteria mettendo in guardia tutti dall’arrivo del figlio dei Korn, non una persona ovviamente, ma un’entità maligna pronta a far saltare sulla sedia tutte le istituzioni. Molto più prosaico invece il contenuto del dissing tra Davis e Fred Durst di All In The Family che spazia da insulti da oratorio fino a prese di posizione circa le rispettive famiglie, città e band nonché gusti sessuali. Questi ultimi non hanno lasciato indifferente chi voleva denigrare a tutti i costi la band, esattamente come ai tempi di Faget e a cui il cantante aveva già risposto per le rime dicendo: “Questo dimostra quanto stupide ed ignoranti siano queste persone”. Il rhyming di Durst di per sé non lascia il segno ma il pezzo è così divertente e godibile da poter soprassedere alla cosa. Di tutt’altra pasta è invece l’apporto di Tre Hardson dei Pharcyde che si muove viscido nel groove oriental-devastante di Cameltosis, introducendo ad uno degli incisi più potenti dell’album.

Peccato che in una recente intervista a Shane Told dei Silverstein nel suo podcast “Lead Singer Sindrome” Davis abbia speso parole ben poco lusinghiere nei confronti di alcuni dei brani di “FTL” e nella fattispecie proprio sui due brani di cui sopra: “È un gran disco, non cambierei nemmeno una virgola eccezion fatta per alcune stupide canzoni come All In The Family e Cameltosis. Le abbiamo scritte solo a causa dell’alcol“. La scelta di tagliarli dalle scalette degli show dedicati al ventennale è presto fatta: “Stiamo facendo questi concerti per celebrare l’album, show in luoghi molto piccoli. Al che ci guardiamo l’un l’altro e ci diciamo ‘Quanto è stupida questa merda. Io non voglio suonarla questa merda, voi volete?’ e tutti dicono di no, e allora li eliminiamo e teniamo solo i brani migliori“. 

(Photo by Kevin Winter/Getty Images)

Le chitarre sono più taglienti e feroci che mai. Il lavoro di fino che propongono Head e Munky dà davvero alla testa, i due hanno ammesso di aver lavorato parecchio sugli effetti e sulla scelta dei pedali per far sì che le chitarre suonassero come altri strumenti, come dei synth – Morello docet – e a dimostrarlo ci sono le svisate elettrospastiche di Freak On A Leash – del video di cui sopra c’è poco da dire: è fantastico ed ha vinto ben due Grammy – o l’introduzione in wah wah mortale della pesantissima Justin, o ancora i flanger orrorifici di Pretty, inestimabile perla di inustitata feralità vocale. La strofa che recita “I see your pretty face smashed against the bathroom floor. What a disgrace…who do I feel sorry for?” basta e avanza come prova inequivocabile di come la voce più melliflua e melodica non tolga niente alla cattiveria dei primi due lavori del gruppo.

A ben 20 anni di distanza da quando “Follow The Leader” approdò sugli scaffali dei negozi di dischi il risultato, dopo l’ennesimo ascolto, resta invariato: suona fresco come una rosa e pesante come un caterpillar rovente incendiato da uno stormo di psicopatici inferociti. Nel 1998 i Korn attraversavano come invincibili re la corte del nu metal decretando che loro e solo loro sarebbero riusciti a far meglio di chiunque altro confezionando il loro disco più aderente al genere a cui essi stessi han dato i natali. Certo, c’è sempre quel Iolao/Deftones di cui sopra con cui avere a che fare, ma questa, come sempre, è un’altra storia. Oggi celebriamo uno dei dischi più pesanti – ed importanti – di quella scena, senza se e senza ma.

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