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“The Shape of Punk to Come”: molte forme, nessun futuro

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Mi ricordo di un momento fantastico in cui qui in Italia tutta una nuova scena sotterranea stava mettendo fuori il becco, preso il testimone di coloro che vennero prima, pronta a indossare i panni se non degli antagonisti veri e propri quantomeno quelli di una valida alternativa al resto, qualsiasi esso fosse. Mi ricordo che in quel momento per la mia band dell’epoca il tutto passava da un paesino sperduto nella provincia di Cuneo e mi ricordo che eravamo tutti molto legati pur facendo ognuno di noi sostanzialmente quel cazzo gli pareva, musicalmente parlando.

E poi mi ricordo che il nostro primo album vero e proprio, registrato in uno studio, con un produttore vero e tutte quelle cose che ti fanno ben sperare per il futuro, era fuori da poco e noi eravamo contenti. E poi mi ricordo di uno di quei ragazzi di quella scena – uno di quelli che faceva parte di una band per me ad oggi tra le migliori in Italia ossia i Fuh – che ci scrisse dicendoci che volevano fare un tributo a “The Shape of Punk to Come” dei Refused, che in fondo era quel disco che ci legava tutti: che facessimo math rock, avantgarde checazzoneso oppure noise o suonassimo l’acustica presi nel nostro esistenzialismo di provincia – ma non provinciale – quello era IL disco, quello che aveva formato ognuno di noi e che ci aveva fatto capire che per essere punk non bisognava esserlo, che per dare una nuova forma a ciò che facevamo dovevamo pensare in altro modo. O che più semplicemente ci piaceva far suonare a volume indegno nei nostri stereo.

Insomma, ci scrisse e ci diede la notizia. Eravamo al contempo eccitati e spaventati, ma d’altronde perché non esserlo? Che pezzo ci sarebbe toccato, era la domanda. La risposta ci colpì come una saetta su per il culo: Refused Are Fucking Dead. Sul serio? Quella canzone era atrocemente difficile! Non solo: era anche la pietra tombale di una delle band più influenti del secolo scorso (anche se gli stessi membri del gruppo si sono avveduti di tale influenza solo in tempi recenti o almeno così affermano). Dopo averla eviscerata ognuno a casa propria ci ritrovammo in saletta e ci guardammo atterriti. L’impresa era una di quelle che spaventerebbero Batman. Ma nel giro di un mese girava in maniera decorosa. Peccato che quel tributo non si fece mai e del nostro pezzo non rimase che il ricordo di dita e menti bruciate. Di quel tributo rimase solo una perfomance live della title track ad opera dei Fuh con il batterista dei Cani Sciorrì alla voce durante l’OK Fest di quell’anno (2008) che mi lasciò a gambe tagliate.

The Shape of Punk to Come” arrivava dopo che quarant’anni prima Ornette Coleman assieme a Charlie Haden, Don Cherry e Billy Higgins diedero una nuova forma al jazz, scrivendone il manifesto e il testamento con in calce la firma del futuro e delle sue scoperte in ambito musicale. Così fecero Dennis, David, Kristoffer e Jon, che nel libretto sono immortalati in fase compositiva osservati dal Coltrane di “Blue Train”, come se fosse lo spirito guida di un’indomita compagine scandinava di nuovi punk alieni.

Fu davvero una dichiarazione d’intenti (e di lotta), tanto che nel booklet è scritto a chiare lettere: “This manifesto is very much for real”. È vero, era il terzo album della band e prima venne il brutale “Songs to Fan the Flames of Discontent” e già l’idea di hardcore come la ricordavamo era bell’e che scardinata, i Dillinger Escape Plan avevano dato il via a qualcosa oltreoceano con il loro primo EP e i Converge uscivano lo stesso anno con l’animoso “When Forever Comes Crashing” e tutto era molto bello. Nessuno di loro però, pur nel più alto momento d’ispirazione, fu coraggioso la metà dei Refused, che in un momento in cui il punk (UGH) per il mondo era Rancid, Green Day, blink-182 e forse NOFX, si misero sul pulpito, giovanissimi com’erano, e dissero “eh no, cari miei, è QUESTO il punk”. E tutti quei miserabili che erano indecisi se copiare lo stile del ’77 oppure darsi ai vestiti Carhartt si ritrovarono inermi dinnanzi alla parola di un Dio minore incazzato come una belva.

C’era tutto: dagli insegnamenti di Malatesta al socialismo spiccio, dall’anarchismo di lotta a Marx, dall’elettronica imbruttita e techno da club che tanto andava di modal tempo ai tempi di un jazz anomalo che proprio da Coleman e Coltrane (e magari Ayler) prese le ritmiche (Deadly Rhythm, diremmo), field recordings e samples matti tra cui un dj che annuncia “la nuova banda svedese di house Refused con la fortissima canzone Refused Party Program, “hardcore techno mes amis!” solo che poi parte l’illusorio ritmo beachboys di Liberation Frequency che ben presto diventa un riot. The Refused Party Program arriva dopo al grido di: “This is the pulse, this is the sound, this is the beat of a new generation, this is the movement, this is the rhythm this is the noise of revolution!”. Beffardi e sicuri di sé stilavano il loro programma “elettorale” e davano la chiave di volta a tutti coloro che non volevano sottostare alle mode e New Noise era l’iniezione di benzina che da sola avrebbe potuto far partire decine di nuovi movimenti. Si fa così, ora tocca a voi. Perché i Refused si sciolsero sotto la pressione dell’essere i capostipiti di qualcosa di nuovo e il tour statunitense fu la fine di tutto.

Oggi che da quel momento sono passati la bellezza di venticinque anni e che i Refused sono tornati più e più volte – prima con un disco incredibile come “Freedom”, il loro “Frankenchrist” dice Sandstrom e poi con uno francamente dimenticabile intitolato “War Music” – la domanda che riecheggia aleggiando mortifera sulla testa di chiunque nella rivoluzione di quell’album credette l’ha posta Geoff Rickley sul debutto dei “misteriosi” United Nations: “Dennis, are you listening? Is there something that I’m missing? Where is the passion? Was it just fiction? If that’s the best that we can do, well, I’d rather be dead, because the shape of punk to come never came and never will come”.

La domanda è ancor più valida oggi, nel 2023 e non potrebbe trovarmi più d’accordo di così.

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