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Back In Time

“In The Absence Of Truth”, utopia e illusione

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Time hides things. Lies hides things. I lose things. I break things. I fall away. I’m tired.

Mi sono serviti i Mogwai per aprire questo articolo, per spiegare come i miei sensi hanno tradotto ed accolto in sé “In The Absence Of Truth”. Ci ho pensato tutta notte a questa cosa e ad un certo punto nella mia testa ha cominciato a girare questa frase, di continuo, in un unico loop circolare. Più pensavo a questi 12 anni passati ad ascoltare e riascoltare di continuo quello che per me è il disco chiave degli Isis, il migliore, il più intenso, quello che se fosse stato l’ultimo sarebbe stato il culmine perfetto, lo sturm und drang di una band che non era politica ma che a quel punto delle cose non poteva ignorare più nulla di quanto stava già accadendo, lo disse Aaron Turner due anni prima l’uscita di questo disco, lo dimostra la frase “Nothing Is True. Everything Is Permitted” che colpisce una coltellata una volta sfilata la sovracopertina. Troppo forte, troppo reale per quel genere che nell’irrealtà mette le sue radici.

È il disco che la band stessa vede come un Tallone d’Achille, come se la crisalide che campeggia in copertina sia ancora chiusa, sempre e per sempre, come se l’evoluzione non si sia palesata lasciando inespresso molto e molto ancora avrebbe potuto dare. Forse l’idea di Turner di spostarsi a L.A. durante la scrittura mentre Harris, Caxide, Gallagher e Meyer stavano a New York è stato il più alto punto di rottura, ma ancora non sapevano che sarebbe stato “Wavering Radiant” a ucciderli, a renderli deboli come mai erano stati. Per me rimane ciò che ho detto prima, la mia hound of winter.

Sarebbe troppo semplice prendere il disco e sciorinare tutti i punti chiave che lo rendono quello che è e sempre sarà. Più difficile sarebbe comprendere come un simile lavoro possa insinuarsi nella mente e nelle feritoie del corpo, dell’anima, se l’anima ci fosse. Per me nel 2006 i giochi erano già fatti, i miei gusti delineati e le scoperte non cambiavano più pensieri e vita sul versante prettamente musicale, e infatti “In The Absence” non è uno di quegli album che cambiano la vita, semmai la arricchiscono. Il disco è come quel libro che non trovi nella libreria, l’unico spazio vuoto che ti fa uscire di testa e così ti metti a cercare quel tassello mancante per tutta casa, la metti sottosopra e poi, una volta che tutto è in disordine e tu sei seduto per terra, ansimante e incazzato mentre osservi la montagna di cianfrusaglie che hai buttato all’aria ti soffermi a osservare. E lo vedi. È sempre stato lì. Allora lo impugni e lo rimetti al suo posto e fai due passi indietro e ora sì che tutto è al suo posto, così come doveva essere sin dall’inizio. Così accadde quando vidi non so più né dove né quando il video di Holy Tears anni dopo l’uscita del disco, riportandomi alla mente quando la sentii per la prima volta, con l’attacco vocale “He was patient, slow descent, chill the bones”, dolce e compassionevole che subito si tramuta in mostro e poi torna nel bozzolo e s’invola, col basso di Caxide che si srotola e tiene assieme tutto, come sempre.

Nel 2006, quando comprai il disco, altrove perché qui il negozio di dischi un giorno non rialzò la serranda, i giochi erano davvero fatti, avevo già visto i Tool a Milano, “10.000 Days” era fuori da parecchi mesi, tutto era stranamente rivolto dalla parte giusta di una storia musicale che si faceva via via più complessa di quanto avessi mai immaginato, e così arrivarono gli Isis a inserire la loro tessera in un mosaico di proporzioni bibliche. Scoprendo che i cinque erano legati a Keenan, Chancellor, Jones e Carey mi vennero i brividi. Era giusto che fosse così, era giusto che solo gli Isis potessero ergersi nel mare post metal, un mare stagnante e piatto. Era giusto che le emozioni che si stagliano nel cielo di un grigiore innaturale e nell’assenza della verità si inoculassero con calma atroce e al contempo con ferocia silenziosa nei miei stati d’animo confusi, nell’idea che ci fossero tante cose sbagliate, che davvero la mancanza di verità portasse la merda a poter dilagare. Se Dick e Bradbury mi hanno insegnato qualcosa è che il velo che divide finzione e realtà è troppo sottile ma altrettanto oscuro e impossibile da rimuovere, e così gli Isis dirimevano le nebbie con le loro ritmiche tribali in un unico sali-e-scendi impetuoso e verosimilmente immobile. Osservatori in tralice di un mondo che muta di continuo, di parole non dette e in cui tacere non era più una buona idea, così come non lo era parlare direttamente a chi ti ascoltava. L’allegoria era la giusta mossa, la chiave di volta.

I crescendo sono l’intensità dovuta, le esplosioni che non arrivano mai, il post che diventa sempre più rock che metal, la violenza gentile della devastazione umana di Not In Rivers, But In Drops che si muove in territori a cui nessun sodale avrebbe voluto accedere con sicurezza, l’insegnamento dei Tool e la rabbia e l’inferno personale di Dulcinea e le lacrime che oggi sendono pensando a Caleb Scofield che su 1.000 Shards si sgola, come una bestia indomita che non s’arrende nemmeno al destino già scritto nel suo futuro. Tutto questo in quella crisalide, come quelle descritte da Murakami quando ancora era la mia lettura preferita mentre in sottofondo gli Isis sottolineavano ogni sbucciatura del mio animo in costruzione. Come i sogni che s’interrompono quando troppo intensi. Come quando nel 2009 me li ritrovai davanti allo Spazio 211, giganteschi eppure già finiti, quando fecero alcuni di questi brani chiusi gli occhi e sognai lì dov’ero, in mezzo alla gente. Sognai un mondo in cui la merda non colava dalla bocca della gente e di come quelle lunghe lame elettriche potessero fare una non so quale differenza sostanziale. L’utopia e l’illusione veicolata dalla bellezza e dal disincanto. Dalla falsa speranza che su un altro pianeta noi si possa vivere in pace, preludio ad un bagno di sangue senza fine.

Niente di tutto questo ti cambia la vita, esattamente come questo disco. Ma la prospettiva indelebilmente alterata fa leggere le cose in tutt’altro modo, da quel momento innanzi. Nell’attesa che il bozzolo si schiuda, anche se la certezza che mai lo farà si mostra a noi come fantasmi del passato che salutano per un’ultima volta fantasmi del presente su un palco semibuio al di là dell’Oceano e noi qui sognanti a guardarli in differita su YouTube, a ricordarci come 12, 15 o 20 anni siano passati in un soffio. Oggi sì che quella frase stampigliata sul libretto assume un senso agghiacciante, basta leggere le notizie, guardare il tg, sentirli parlare e capire che davvero niente è vero e tutto è permesso. Fa male, male come null’altro potrebbe fare. Allora rimetto su il disco e torno là, a Torino, a risentire l’aria riempirsi di un cosmo ormai spento.

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