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Back In Time

“The Velvet Underground”, il concetto di decadenza di Lou Reed

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“Between thoughts and expression lies a lifetime”

Lou Reed, Some Kinda Love

Un self-titled album è una faccenda delicata. Essendo una sorta di manifesto sonoro, non sorprende che talvolta servano anni per dire: “bene, questi siamo noi”. Altre volte tale confiance pare addirittura irraggiungibile. Per alcuni, invece, è biglietto da visita. Nel caso dei Velvet Underground, secondo biglietto da visita. Nel giro di tre anni, dalle fognature della Grande Mela prendono infatti forma “The Velvet Underground & Nico” (1967) e “The Velvet Underground” (1969), tra i self-titled album più influenti di sempre, scintille fondamentali per l’esplosione di punk e new-wave. Due dischi molto diversi, certo, ma nati in circostanze simili. Ci troviamo a New York nella seconda metà degli anni Sessanta. Le case discografiche cosiddette “major” sono disperatamente in cerca di una contromisura alla British Invasion, ma il sound spettrale ed i versi provocatori di Lou Reed e compagni, purtroppo, non fanno al caso loro. Entrambi gli album escono così per Verve Records, una label specializzata in – rullo di tamburi – musica jazz.

La differenza tra i due LP è comunque sostanziale ed è da attribuirsi alle diverse line-up della band: mentre nel primo disco pesano le presenze di Nico, la chanteuse tedesca imposta dal guru-esteta Andy Warhol, e di John Cale, violinista di matrice classica ed anima sperimentale del gruppo, nel secondo abbiamo un prodotto al cento per cento made in Lou Reed. La leggenda narra che il frontman, motivato a rendere la band più accessibile al pubblico (specie dopo la violenta parentesi industrial di “White Light / White Heat”, disco di mezzo, datato 1968), allontanò John Cale in seguito alla proposta di quest’ultimo di registrare l’album con amplificatori immersi sott’acqua. Meglio così. Non avevo proprio voglia di arrischiarmi in discorsi del tipo: “chi è meglio, il musicista maledetto o il poeta maledetto?”. Dimentichiamoci di John, dunque, e focalizziamoci su Lou, che in questo terzo lavoro rende manifesta la sua natura più sensibile e vulnerabile, lontana dalle perversioni stupefacenti dell’album di debutto. La tematica principale, qui, è un’altra: l’amore, un must di ogni poeta che si rispetti.

(c) Everett Collection

Il disco si apre con Candy Says, melanconica fotografia di una donna tormentata dalle proprie spoglie (“I’ve come to hate my body”) che si rivela presto essere Candy Darling, superstar transgender frutto della Andy Warhol Factory. Ma Candy non è la sola a disperarsi. Le scanzonate dissonanze rock’n’roll tutte mascoline di What Goes On raccontano l’altra faccia della medaglia: un “pover’uomo” che cerca invano di capire la compagna (“What goes on in your mind?”). Ma l’amore non è solo dolore ed incomprensione: la passeggiata country-blues Some Kinda Love e la splendida ode Pale Blue Eyes celebrano il massimo sentimento come espressione di libertà, una sorta di amor cortese slegato da pregiudizi (“No kinds of love are better than others”), bigotterie (“Put jelly on your shoulder baby, lie down upon the carpet”) ed etichette sociali (“The fact that you are married / Only proves that you’re my best friend”). Roba tosta nel 2019, figuriamoci nel 1969. Il mea-culpa religioso non tarda infatti a manifestarsi: in Jesus Lou si dipinge come un’anima errante e bisognosa di grazia (“Help me in my weakness / ‘Cause I’m falling out of grace”). Il post preghiera dalle radici soul Beginning To See The Light canta del ritorno alla retta via, ma la credibilità del frontman come homo novus scarseggia (“Wine in the morning and some breakfast at night”; “There are problems in these times / But, ooh, none of them are mine”).

“How does it feel to be loved?”: questa è la domanda che rimbalza ossessiva nella testa di Lou. Il crescendo art-rock di I’m Set Free vede quindi il Nostro eroe col cuore spezzato e alla ricerca di una risposta (“I’m set free to find a new illusion”). I deliri psichedelici molto Doors di The Murder Mystery ci fanno però intendere che l’uomo, cercando l’amore, ha trovato la follia (“Let’s have another / Of inverse, converse, diverse, perverse and reverse”), culminante nella minaccia suicida della conclusiva After Hours (angelica filastrocca magistralmente interpretata da Maureen “Moe” Tucker): “But if you close the door / I’d never have to see the day again”. Insomma, disforia di genere, adulderio, follia e suicidio filtrati dall’ingenua arroganza di un eterno bambino: questo è il Lou Reed di “The Velvet Underground”.

Uno dei dischi migliori di una delle band più influenti di sempre. Mezzo secolo dopo, “The Velvet Underground” lascia ancora a bocca aperta. Abbandonate le atmosfere tetre e drogherecce dei primi due dischi ed assicuratosi la leadership del progetto, Lou Reed si dedica qui ad un personalissimo concept decadentista in cui mischia poesia e musica, definendo una nuova forma-canzone che diventerà poi iconica della sua carriera solista. “The Velvet Underground” rappresenta dunque un documento primordiale nella storia della musica contemporanea, una preziosa finestra sulla vera natura dell’indimenticato poeta maledetto. Da rispolverare.

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