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“Tago Mago”, un Giano bifronte arrivato dal cosmo

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Tago Mago è un disco che suona uguale solo a sé stesso e che non somiglia a nessun’altra opera che l’abbia preceduto o seguito

Julian CopeKrautrocksampler

Inseriti per estrema semplificazione nel genere-contenitore kraut-rock, i Can racchiudono in sé tutte le istanze e le peculiarità di ciascuna delle band inserite nella categoria e le esaltano, le sublimano, le portano a un livello ulteriore che travalica qualsiasi preconcetto che la mente possa incubare. E non solo il kraut: qui c’è un frullato di generi con caratteristiche così uniche da spaccarsi la testa nel tentativo invano di trovarvi una logica. O forse un elemento soggiacente che può tentare di spiegare, come una legge fisica universale, il motivo di questo allineamento stato di grazia c’è. È la libertà. Uno slancio creativo, una sinergia spontanea di intenti che ha un che di esoterico nei suoi esiti sincretici, al di là della somma delle parti, e rappresenta ancora oggi un unicum.

Galeotto fu un viaggio di Irmin Schmidt, pianista e tastierista di stampo neoclassico, a New York nel 1966. La scoperta del minimalismo di Terry Riley, LaMonte Young e Steve Reich così come della Factory warholiana, e l’esposizione al funky psichedelico di Sly Stone si unirono in alchimia esplosiva alla gavetta presso Stockhausen e aprirono letteralmente in due la testa del giovane Irmin che, di lì a pochi anni, non resiste alla tentazione di “fondere tutta la musica contemporanea in un unico elemento”. Hai detto niente. In quest’impresa folle e ispirata trova dei sodali in Holger Czukay, anch’egli studente di Stockhausen, Michael Karoli e David C. Johnson. L’incontro fortuito con un busker giapponese fuori dalla grazia di dio, al secolo Kenji “Damo” Suzuki, chiude il samsara e pone le basi perché la band sbocci come un seme di yagé e raggiunga lo zenit in pochi anni. Prima dell’addio, il frontman precedente, l’americano Malcolm Mooney, lascia alla band il nome con cui entra nel mito: Can.

In mancanza di uno spazio decente in cui provare e registrare, i nostri s’installano nello Schloss Nörvenich, castello nei pressi di Colonia il cui proprietario consente alla band di occupare i suoi spazi per un anno intero a costo zero. Nelle loro mani, il maniero si trasforma negli Inner Space Studios, in onore del primo nome della band. A colpi di session che arrivano a durare anche 16 ore al giorno, la band completa le registrazioni in tre mesi. Il più delle volte, pure jam free-form interminabili editate in post-produzione da Czukay che, con un lavoro certosino, seleziona e missa ex post le porzioni di esecuzione più interessanti. Tra le mani del bassista finiscono anche scampoli di prove che Holger registra a insaputa dei compagni. Nel collage di generi anticipati e profetizzati dalla band rientrano anche i field recording: le grida di un bambino e i latrati del cane di casa Nörvenich finiscono infatti per caso nel mix, ma la band decide comunque di mantenere quelle tracce estemporanee.

Il risultato è un disco indefinibile, fluido, cosmico. Un Giano bifronte nel quale si contrappongono la prima sezione, più “pop” e orecchiabile (si fa per dire), e la seconda, più sperimentale e free-form. Paperhouse inizia come una dolente ballata in tono minore per poi sfociare in un baccanale di chitarre e voci sibilline trainate dal drumming coriaceo di Liebezeit; ancora il batterista, vera forza trascinante del disco, introduce con Suzuki Mushroom, viaggio il cui nome vuole lisergico, ma che non si fa fatica a crederlo tale ascoltando le litanie di voce e chitarre che cercano di sintonizzarsi con l’ignoto. Oh Yeah introduce il ritmo motorik, che diventa ben presto paradigma del kraut-rock tutto, in una scorrazzata scandita dai versi in giapponese del busker.

Halleluhwah è un rito che riaffiora in superficie ogni volta che qualcuno nel mondo decide di rievocarlo. Come una falda acquifera, continua a scorrere e pulsare in profondità anche quando non ne percepiamo lo scroscio o quando siamo troppo immersi in faccende prosaiche per porvi attenzione. Non si lascia riscoprire e riprendere in qualsiasi momento: solo quando si rende necessario. È space-funk, è psichedelia, è rhythm‘n’blues; è tutto. È musica al suo stato più puro e libero.

Ed è anche il brano che inaugura la parte più ostica e più morbosamente affascinante dell’album. Aumgn, in particolare, sta alla musica come le Piramidi, Stonehenge, le statue dell’Isola di Pasqua stanno alle meraviglie del mondo. È un campo base per stabilire un contatto extraterrestre, un messaggio lanciato nello spazio alla ricerca di un’armonia compatibile e sorella, è musica per le sfere. Una possibile colonna sonora per le scene più spiazzanti di un dramma fantapsicologico come “Solaris”.

Su Peking O si può sentire una delle prime drum machine usate in musica, la Rhythm Ace della Ace Tone. Il brano tira in ballo una quantità tale di suggestioni e riferimenti (musica africana e orientale, free-jazz, elettronica, new-wave, post-punk) come se la band si fosse fatta un giro con la Delorean a rubare almanacchi con tutte le uscite musicali di grido apparse di lì a cinque, dieci, quindici anni. Folle e geniale. Bring Me Coffee or Tea riporta un po’ d’ordine prima del congedo, ma solo apparentemente: tra i suoi solchi, si può leggere tanto l’arrivo del dream-pop (andatevi ad ascoltare Very Sleepy Rivers dei Mercury Rev e capirete cosa intendo) così come un tributo ai Velvet Underground.

Tago Mago” è stato un “tentativo di raggiungere un mondo musicale misterioso, dalla luce all’oscurità e ritorno”. Un viaggio attraverso un mondo esoterico; impressione corroborata dalla fascinazione esercitata sulla band da Aleister Crowley (il disco prende il nome dall’isola di Tagomago, atollo a largo delle coste di Ibiza citato nell’opera dell’occultista). Non a caso, la band non ha esitato a definire il disco il loro “album magico”.

A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua uscita, continua ad esercitare un fascino magnetico e malsano, come un rituale che si ripete da generazioni e che non smette di incantare.

 

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