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“Down II: A Bustle In Your Hedgerow”: il canto degli spettri del Mississipi

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Un uccello intinge il becco nelle gelide acque del Mississippi e il silenzio delle prime luci dell’alba è assordante. Poco lontano c’è New Orleans, ancora intatta. Certo, è fatiscente nell’anima, sporca delle eiezioni d’ogni notte e ancora memore degli spettri del Mardi Gras, troppo vicini sebbene così distanti. Il volatile sente uno schiocco nella radura, tra le nebbie, ma non se ne cura. Sa che le presenze del fiume attendono gli esseri umani, da loro arrivano e a loro torneranno in una innaturale attrazione post-umana. Un frullare di ali e si libra in aria, sorvolando un’enorme pozza d’acqua stagnante che per lui non ha alcun nome e lì sotto vede cinque figure avanzare un passo avanti all’altro.

I Down camminano con lentezza esasperante fino alla Nodferatur’s Lair, sulla sponda nord del lago Pontchartrain, gli strumenti in braccio, il cuore in gola e la sicurezza di non essere affatto soli e di avere dinnanzi a sé 28 giorni di buio per portare a termine il secondo capitolo della propria esistenza. Sette anni sono passati da quando quattro quinti di quel gruppo incisero una delle pietre miliare del metal tutto – se di metal si può parlare senza dovervi aggiungere un suffisso di colore blues – che porta inciso sulla propria lapide il nome “NOLA”, o meglio New Orleans, Lousiana. Un senso d’appartenenza che scorre come le sporche acque del fiume nelle vene di Phil, Jimmy e Kirk e che li rende legati ad una terra fatta di necromanzia e carnevaleschi orrori, di musica nera come l’anima più impestata ma limpida e fredda come un sole invernale.

“If there’s a bustle in your hedgerow, don’t be alarmed now / It’s just a spring clean for the may queen / Yes, there are two paths you can go by / But in the long run there’s still time to change the road you’re on”, cantavano gli Zeppelin guardando ad un paradiso indotto da rituali usuali all’epoca. I Down scelgono il cammino arduo, quello del pentimento ed immerso nel fumo in cui scelsero la propria sepoltura pochi anni prima, come un testamento univoco ed imprescindibile, e questo cammino li ha segnati sin da quando, immersi fino alle ginocchia nel fango di Pantera, Corrosion Of Conformity, Eyehategod e Crowbar, seminavano il terrore nelle menti e nei cuori di chi osservava i propri figli infilarsi in quei concerti, tra corpi sudati di rabbia e inferni privati. Il bivio confluisce però in un’unica strada, quella che porta a “Down II: A Bustle In Your Hedgerow”, ma qui non c’è nessuna Regina di Maggio, nessuna luce ma, soprattutto, nessuna scala verso la Città d’Argento. Lo sguardo del quintetto volge alla città di Megiddo, sul Monte della Fine del Mondo, che diventa ben presto il simbolo delle paure di una vita d’oscenità, Phil Anselmo il suo Cristo crocifisso al contrario che, con voce luciferina, canta dei tormenti dell’animo umano.

II” è un album che soffre e trasuda oscenità, il sangue come liquame nero, ispirato da tutto ciò che di negativo può esserci sul tragitto dalla culla alla tomba e serve a liberarsi dal fardello che ci opprime mentre ci muoviamo verso il momento inevitabile. “I’ve got nothing to lose” sbraita l’ex-Pantera sul finale di Lysergick Funeral Procession, e gli altri come orripilanti monaci deturpati dal fulgore dell’Inferno colano elettricità nella fornace e il tutto ribolle mortifero e singhiozza tra un pugno e l’altro, in una rissa al cimitero. La sicurezza che gli spettri del Fiume ci diano la caccia o che più probabilmente siano dentro di noi è l’unica Stella Polare sul cammino che abbiamo scientemente deciso d’intraprendere, soli con noi stessi, e allora ci guardiamo dentro mentre i tuoni di chitarra scuotono le nuvole in un cielo color lapide, volgiamo il viso alle figure che ci circondano ed eccole lì, corrono e poi rallentano nel turbamento elettrico di quel blues-metal che del doom si fece latore unico ed imperituro affondando le mani come radici verso la musica di popoli lontani, che cantano in lacrime il loro passato di dolore.

Ma nel momento in cui lasciamo questo lurido e fetido mondo guardiamo con gli occhi velati dal trapasso alla croce di vetro appesa sopra le teste spente, e suona rock’n’roll come solo Caronte potrebbe cantare delle promesse nascoste che abbiamo fatto. Impariamo dal male che abbiamo procurato a noi stessi che lo schifo ha sempre un nuovo modo per sorprenderci nel viaggio, il quale finisce su quel Monte, mentre usciamo dallo sporco della terra, durante la battaglia finale e qualcuno sceglie per noi da che parte stare, mentre i cinque sono ancora lì, e sottolineano la possibilità che il dolore possa essere acustico, leggiadro ed intonato, blu come la notte più bella o le acque calme dell’Armageddon che ormai abbiamo accettato.

Il mese passa, i cinque escono dal capanno divenuto studio e tornano alle proprie attività. Il disco partirà alla volta di Nashville dove verrà ulteriormente trattato in una chiesa (strano caso) e poi prenderà il largo spargendo i propri gemelli in tutto il globo. Di lì a poco la Natura avrebbe riversato la propria spietatezza incolpevole su New Orleans. Ma i Down sono ancora qui, come la città, resistono e persistono. Ma questa è un’altra storia.

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