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“Songs For The Deaf”: inchinatevi alla corte delle regine del deserto

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Che Vaso di Pandora fu per me quell’ “Ozzfest – Second Stage” che comprai ben 21 anni or sono non per puro caso, ma per necessità assoluta: Neurosis, Pitchshifter, Earth Crisis, Biohazard, Powerman 5000 (ma su questi devo ancora capire se fu o meno una fortuna), Coal Chamber, e infine i Queens Of The Stone Age e tutti alla corte del carrozzone di Ozzy Osbourne, per il quale provavo venerazione blacksabbathiana e indifferenza solista. Chi fossero i Kyuss lo ignoravo nel modo più assoluto, i Mondo Generator manco a parlarne, figurarsi i QOTSA, ma cazzo, quella Ode To Clarissa mi stese. Beh, chiaro, non è di sicuro il pezzo che può farti capire tutto quanto di questa band, ma fu sufficiente. Mi schiaffeggiarono in pieno volto.

Causa difficoltà nel reperire informazioni utili lì per lì non riuscii ad approfondire un beneamato cazzo quindi rimasi a mordere il freno scalpitando, che al negozio di dischi non avevano nulla di nulla di quella band, e in ogni caso non avevo più soldi da spendere quindi mi misi seduto ad aspettare. Non ci volle comunque molto perché, perennemente sintonizzato su MTV e a sfondar paghette sui giornali di settore verso la fine dell’anno successivo venni ripagato per la pazienza e la devozione con la premieré del video di No One Knows. È necessario che vi dica che avevo da poco preso a suonare il basso e che quindi rimasi di stucco a sentire QUEL giro di basso, che oggi come oggi potremmo ben dirlo essere divenuto immortale. Beh, a conti fatti e a voler essere sinceri, volevo impararlo, ma non avevo proprio alcuna possibilità di portare a casa il risultato. Quel che vidi e sentii fu qualcosa di clamoroso.

Anzitutto nel video c’era Dave Grohl. Altro doveroso asterisco: in quel momento specifico l’unica cosa che apprezzavo dei Nirvana era proprio il batterismo del futuro leader dei Foo Fighters (e quindi “Bleach” lo bollinai come poco e niente, che sciocchino) non ancora assurto allo status di Santo del Rock, per nostra somma fortuna. Pertanto fu uno shock, un altro ancora, e a sentire quel che accadeva nelle figure ritmiche di quel barbuto pelato, dinoccolato, tatuato e truce simpaticone di Nick Oliveri e Grohl c’era sicuramente da uscirci cretini. Non riconobbi però Van Leeuwen degli A Perfect Circle, nonostante la sbandata per “Mer De Noms” l’ebbi poco prima, ma sorvolai. Poi c’era questo tizio lì in mezzo, con questa voce melliflua, con quel piglio Elvis e la chitarra piccola, le braccia di uno che ti piglierebbe a pugni (e in effetti), e senti come inanella frasi perfette a riff assurdi. Il suono poi, compresso e caldo come il centro di un vulcano pelvico. Josh Homme si scrive, si legge OMI, sottolineerà il diretto interessato, per un sacco di tempo per me e per tutti coloro a cui stressai l’anima con questo disco era GIOSCH OMM. Poveri noi.

Poco poco che ci lasciassi la faccia solo su quel video, incollato alla TV, ancora più curioso e famelico (quantomeno un po’ sfigato), trovai ristoro nel fatto che alla fine all’interno della vetrina del negozio di dischi apparve quella copertina rossa, con l’ombra del forcone a due punte, luciferina e col logo della band così goth, che cazzo era? E dietro quattro ghigne e quella sull’estrema destra proprio non ci fu verso che capii a chi appartenesse. A spulciare il libretto come ritual de lo habitual (eheh) m’imbattei in questo Mark Lanegan (hey, ma c’era pure lui nel video!). Pure gli Screaming Trees mancavano all’appello delle mie conoscenze, e onestamente quando vi entrarono di lì a poco non si fermarono su alcuna delle corde immaginifiche dell’animo, presero e m’annoiarono e basta, ma quel Mark Lanegan, quella voce no, mi stregò pure quella e finii per legarmici al doppio filo, scartando gli ST, non pentendomene mai nemmeno un secondo.

(Photo by Hayley Madden/Redferns)

Cos’era questo “Songs For The Deaf”? Questo titolo ficcante e un po’ cinico, come a dire “boh, ‘sta merda è solo per sordi”, oppure “fa tornare l’udito ai sordi” faceva paura, era bello e perfetto per quello che, veloce come il caldo vento dei deserti – per usare un cliché atto alla bisogna – ascoltai uscire dalla mia triste radiolona Sony con lettore CD, unica mia valvola di sfogo in anni di passaggio da “stronzo piccolo” a “super stronzone”. Questo qua fu il mio rito iniziatico, allo stoner, sì, ma soprattutto alla complessità di un’opera che sovente appartiene ai primi dischi, non ai terzi. Spesso su queste pagine ho ribadito che ci sono terzi dischi perfetti che coi primi ci si puliscono deretano e buonanotte suonatori e qui siamo dinnanzi alla perfezione delle perfezioni a riguardo di questa tesi, non così tanto strampalata. Ecco, dunque fui iniziato da me stesso ad un’idea che di norma condivido solo con…me stesso. Come un sacco d’altre cose, ma non divaghiamo.

Già il semplice fatto che il disco si presenti come un – passatemi il termine – concept album, nel senso che il filo conduttore è che un tizio sale in auto, di quelle belle grosse americane e spesse come solo Dio sa, che salti di stazione in stazione con la sua bella radio mentre tarella duro sull’asfalto rovente, già mi faceva salire di giri, aggiungeteci che l’opener dal chilometrico titolo You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire mi rispedì dritto dritto in faccia quel che provai con Ode To Clarissa, ma meglio, con quella voce sgraziata e brutale del Nick a menar già duro su una roboante sbruffonata punk, ma non nel senso del genere vero e proprio, ma di smargiasseria obliteratrice e d’inverecondo furore, già ero cotto marcio di questa robina qua. Tra i DJ delle stazioni, nota di puro gusto ed orpello, finii per riconoscere (ma d’altro canto c’erano i nomi nel booklet) Twiggy Ramirez, il mio tanto amato, e poi pure Casey Chaos, la feroce e mostruosa ugola dei troppo dimenticati Amen. Era un luna park infernale. E poi giù duro a buttarsi in No One Knows, col solco che si fece sul retro del cd, ed ecco pian piano arrivare la voce catacombale di Lanegan, per uno, due, tre pezzi e io a sbavare per averne ancora.

Qualcosa non lo capii subito, mi ci volle un po’, forse anni e un sacco di ascolti collaterali, ma quel che era chiaro alla prima battuta che quelle sfrenate corse in auto (Go With The Flow) le preghiere di amori osceni da motel – così li vedevo riflettersi in Another Love Song – i riff di batteria – così li intendeva Grohl – le claudicanti piazzate da sagra delle malebolgie (God Is In The Radio, A Song For The Dead della quale c’è pure quella perfomance live di quell’anno per cui ringrazio l’universo ed internet) e la straziante magnifica lagna di Gonna Leave You, super catchy mega scopereccia tra le lacrime, oh Signore, era qualcosa di più di quanto stessi scoprendo in quello stesso periodo, perché qui c’era un mondo dietro e tutta una vita già vissuta e suonata che manco me l’immaginavo. Fu il pulsante d’accensione di un missile che s’impianta nella terra riarsa e rossa, rossa come l’artwork ed il sangue lasciato sulle corde.

Qui imparai ad amare e al contempo odiare Homme, perché se scrivi un disco così assieme ai tuoi amici che pare tu lo stia facendo come la cosa più naturale del mondo, cribbio, sei il più grosso stronzo di tutti i tempi, e ti ringrazio cento e duecento volte per questo. Tendo ad esagerare ed ingigantire le cose, ma voi potreste dire, in cuor vostro e senza mentirvi, che “Songs For The Deaf” sia un album di poco conto e io vi pagherò, ve lo prometto – mentre incrocio le dita dietro la schiena.

Perché lo amai? Presto detto, rileggetevi tutto questo deliqui-lirio. Perché lo odiai (e ancora lo odio)? Perché non ci fu più nulla da fare per i Queens Of The Stone Age e oggi se esce un disco così così, ringraziamo tutti, ma di saltare sulla sedia non se ne parla proprio più, nemmeno con la band incredibile che il Nostro amico si porta appresso. Potreste non essere d’accordo, e non vi biasimerei, non che la cosa mi tocchi poi più di tanto. Però in un angolo del vostro cuore sapete che è così. Ma ci facciamo bastare quel che verrà. O anche no. Tanto “Songs For The Deaf” è stato registrato e distribuito in ogni dove, come music-biz vuole, e noi/voi/chicchessia potremo suonarlo quante volte vorremo, quando le novità joshhommiane non ci convinceranno, o quando ci salirà quella nostalgia del viaggio in macchina di cui sopra. Così oggi, così come vent’anni fa. 

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