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“Achtung Baby”, le giornate difficili esistono

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Quel sabato di novembre, Viale Roma era un fiume. Pioveva, innanzitutto, e dalle macchine le altre luci alimentavano quel fiume impetuoso di ombrelli, automobili, balconi, scarichi fognari, cani. Vedevo i riflessi della vita che si dipanava all’esterno, eravamo in coda da dieci minuti per un mio capriccio. Avevo voluto andare a comprare “Achtung Baby”, degli U2, proprio quel pomeriggio, uno di quei pomeriggi che anticipa, per movenze e voglia di riversarsi nelle strade, un pomeriggio prenatalizio. Era uscito il giorno prima ed ero sicuro che quel negozio ce l’avesse. Guardavo le gocce di pioggia cadere dai semafori, dai lampioni, rasentare i fari caldi delle automobili, mentre mia madre non diceva una parola, al volante.

Il suo sguardo, deciso mentre lei, aggrappata al volante gelido della Renault Quattro, cercava di arrivare al negozio, incagliata nel traffico di quel sabato pomeriggio, mi fece rendere conto delle difficoltà che si possono incontrare in alcune giornate. L’andare a comprare “Achtung Baby” quel giorno era, alla fine, solo un mio capriccio: non era una difficoltà in cui ci si può imbattere in una giornata difficile.

“Se a dieci anni hai questi gusti musicali, significa che hai un orecchio fine!” mi disse, dopo aver superato l’ennesimo semaforo, forse l’ultimo, prima di dover iniziare a cercare un parcheggio. Ha sempre avuto parole dolci, per me. Anche quando non me le meritavo. Soprattutto quando non me le meritavo.

Uscimmo e l’acqua scendeva gelata dai palazzi circostanti. Andava frantumandosi contro i lampioni. Si disintegrava, a contatto con le luci delle automobili. Cercavo di riconoscere dei fiocchi di neve ma no, era troppo presto perché nevicasse. Indossavo un bomber nero con l’interno arancione fosforescente, un paio di Timberland marroni con i lacci quadrati di cuoio e dei jeans che mi scendevano lunghi sulle scarpe. Entrammo nel negozio e ci investì un torpore quasi inumano, considerando le condizioni meteo esterne.

La vetrina era illuminata, e il manifesto dell’uscita dell’ultimo disco degli U2 era appiccicato sotto alla maniglia di metallo grigio, all’ingresso. Era colorato, ma non brillava nella pioggia di quel sabato. Era fatto a quadri, in ogni quadro c’era una foto e una delle foto ritraeva un bisonte in un prato grigio. Poi c’erano delle loro immagini, degli U2, che indossavano occhiali da sole e giubbotti di pelle. Correndo, entrammo nel negozio, col fiatone di chi esce dalla macchina e non ha un ombrello per ripararsi. Una volta dentro, iniziarono a bruciarmi le orecchie. Mia madre salutò ad alta voce, la proprietaria era dietro al bancone e parlava con un cliente: era un ragazzo alto con delle toppe sul giubbotto di jeans. Faceva freddo e mi chiesi cosa potesse aver spinto quel ragazzo ad indossare il giubbotto di jeans con un clima simile. Aspettando il nostro turno, mi avventai sui totem delle cassette, delle rastrelliere alte, insicure e ondulanti che raggruppavano in pochi centimetri tutto ciò che fosse uscito negli ultimi anni. C’erano i R.E.M., c’erano i Litfiba, c’erano dei dischi degli U2 che non conoscevo, ma non vedevo “Achtung Baby”. Il mio capriccio si stava rivelando un fallimento.

Il ragazzo se ne andò e mia madre mi esortò a chiedere alla donna cosa avessi bisogno. La ricambiai con uno sguardo impaurito, era la prima volta che stavo chiedendo a qualcuno qualcosa che riguardasse la musica. Non pronunciai il nome dell’album: quella commistione di inglese e tedesco (appresi che “achtung” fosse una parola tedesca durante il viaggio in macchina con mia madre) mi appariva invalicabile, difficile da rendere tramite fonema. Chiesi così il disco degli U2 uscito la settimana prima. La proprietaria del negozio sorrise e si chinò verso degli scatoloni ammucchiati sul lato del bancone.

“Ecco qui” mi disse, e sorrise sia a me che a mia madre. Il formato cassetta, “tape” della Island Records era solido e piccolo. In macchina, tornando a casa, ne controllai il contenuto. Aveva quasi smesso di piovere e mia madre non parlava. Arrivato a casa, srotolai il booklet che profumava di cartone bagnato e inchiostro colorato, la cassetta era incisa con il logo dell’etichetta e i titoli delle canzoni su entrambi i lati. Ascoltai So Cruel per tutto il pomeriggio: era lineare, diretta, iniziava con tre note di piano e poi entravano insieme a voce e batteria. Recitava parole come “time”, “desperation”, “angel”. Cercai di decifrare il significato delle parole di Who’s Gonna Ride Your Wild Horses e di controllare nel libretto ogni foto, ogni angolo, ogni parola. Avevo paura di andare avanti ad ascoltare l’intero disco e volevo procedere passo dopo passo, riavvolgendo il nastro nel registratore grigio. Avevo cambiato modo di ascoltare musica. Mi sentivo già diverso da tutto ciò che ascoltassero i miei compagni di scuola, i miei amici del calcio, i figli degli amici dei miei genitori con i quali passavamo i Capodanni.

Quel bisonte, raffigurato sul manifesto pubblicitario dell’uscita del disco, è presente anche in una versione del video di One. La vidi una volta, in televisione, quando trasmettevano la pubblicità promozionale di “Beverly Hills 90210”, serie TV che i miei mi proibivano di guardare. Dieci anni dopo, Johnny cash decise di rifare One: fu così che iniziai ad ascoltare, quindi, Johnny Cash. Seppi che aveva collaborato con gli U2 anche per la realizzazione di “Zooropa”, l’album che viene dopo “Achtung Baby”, di cui ascoltai praticamente solo The Wanderer, scritta per l’appunto insieme all’uomo dell’Arkansas.

Non ascolto da tantissimo tempo “Achtung Baby”, il settimo disco degli U2. Ho ascoltato, forse, molto di più gli album precedenti, spinto dalla curiosità di conoscere cosa fossero e cosa suonassero i quattro irlandesi prima di raggiungere il successo. Tre anni e mezzo dopo quel piovoso sabato pomeriggio, mi trovavo in vacanza in Irlanda, sempre con i miei. Avevo comprato in un negozio di Milano una maglietta degli U2 giusto la primavera precedente, avevo tredici anni. Mio padre mi prese in giro, dicendo che più che un trifoglio, quella roba stampata sul cotone bianco della mia maglietta nuova, sembrava un cavolfiore. Era il 1994 e c’erano i Mondiali, in campeggio una volta un ragazzino inglese mi si avvicinò e mi chiamò “Dino Baggio”. Per le strade di Galway e in alcuni quartieri di Dublino erano ancora appesi gli striscioni commemorativi per la vittoria della nazionale di Pat Bonner e Sheridan contro gli azzurri di Sacchi. Mi aspettavo di vedere, in giro per il Paese, molti più riferimenti e rimandi agli U2, ma non fu così. Non ne chiesi a nessuno il motivo, pensai solamente che l’Irlanda stesse avendo altro a cui pensare e che, probabilmente, il successo aveva portato la band di Dublino lontano da casa per sempre.

Ritornai altre volte a comprare delle cassette in quel negozio di Viale Roma. Comprai, arrivando sino agli scomparti più alti delle insicure rastrelliere girevoli per le musicassette, “Ixnay On The Hombre” degli Offspring e “Tested”, il live dei Bad Religion su major che inizia con Operation Rescue. In entrambe le circostanze, comunque, non ebbi il coraggio di pronunciare i nomi né dei gruppi, né dei titoli degli album.

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