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Back In Time

Troppo giovane per “Microchip Emozionale”, troppo vecchio per “Microchip Temporale”

Alcuni di noi erano piccoli, altri già più grandi, non poi di molto. Quelli più vecchi erano fuori dai radar e non avevano voce in capitolo. Io ero tra quelli piccoli, quelli che si affacciavano al mondo alternativo italiano con cautela, ma estrema curiosità. Nel mio mondo c’erano più chitarre che altro, perciò il primo passo furono ovviamente gli Afterhours, ma nello stesso mondo fatto di distorsioni avevo anche altro, tipo i Bluvertigo. I Subsonica vennero poco, pochissimo dopo. Il disco ce l’aveva una mia amica, e incredibilmente mi piacque in fretta. Poi questi cinque tizi erano a Sanremo, con una roba che tutto era tranne che sanremese.

Erano tamarri, cazzo se lo erano, difatti chi era in botta con il rock – seppure alt – non riusciva a farseli piacere, proprio per la loro natura “tamarra”. Ma se ci si fosse fermati lì non si sarebbe capito un cazzo. In quegli stessi anni stavo scandagliando la libreria fantascientifica di mio padre, e forse è stato proprio quello a farmi muovere verso Samuel, Max, Pierfunk (e poi Vicio), Boosta e il Ninja. “Microchip Emozionale” mi faceva pensare a “Blade Runner”, a “Matrix” a tutti quegli Urania che stavo leggendo, ed altro ancora. Mi faceva pensare alle giornate nebbiose della mia piccola città piemontese, e quando lo comprai, a 2000 inoltrato, in un pomeriggio in cui avevo in tasca soldi a sufficienza, feci un gesto per me al di là dei miei gusti musicali, e non me ne pentii mai.

Non avevo ancora i mezzi per comprendere tutto ciò che si celava sotto quei brani, eppure mi toccavano, raggiungendo punti che forse non avrei voluto approfondire, ma già stava accadendo. I soundscape del gruppo torinese erano diradati, ombrosi e portavano a fondo, c’era frustrazione, rabbia, leggerezza, amarezza, sguardi che si perdono lontano su città che divorano, tecnologie in ascesa, sentimenti di fine ed inizio millennio, così nuovi allora e oggi così antichi. Samuel era bravo proprio in questo: non parlare dritto in faccia, usare giochi di parole, labirinti, difficili, messaggi nascosti, girava intorno alle parole, ma poi, di botto, si lanciava sul punto della questione.

Ascoltavo Colpo di pistola e digrignavo i denti, pensavo di dedicarla a chi mi piagava, chi mi prendeva per il culo, pensavo mentre cantavo, con il CD nel lettore portatile che andava all’impazzata; Sonde che cominciavamo a sentire orbitare attorno a noi, come spiati di continuo, il terrore di non avere più un momento proprio (fa ridere, oggi, che condividiamo per nostra scelta qualsiasi cosa); poi su MTV girava il video di Discolabirinto, coi Bluve, e c’erano i “noi stiamo con Morgan/Andy” e i “noi no, con Samuel/Boosta”, ma chissenefotte, è un pezzo pazzesco, che ci faceva muovere, anche noi che in realtà di ballare non avevamo voglia per niente, la desideravamo quella discoteca senza luci né colori, cassa in quattro, Welsh che si spiana di droghe mentre Dick spinna un disco pazzo; piangevo di nascosto mentre arrivava Tutti i miei sbagli, una ballata elettrogena, che non era una ballata per un cazzo di niente;  Il mio D.J., tosta, funk, cattiva, le tastiere e le chitarre che ti portavano su e incattivite si lanciavano nel buio; non riuscivo a capire la metà dei farmaci elencati in Depre, né capivo come un pezzo dedicato all’abisso potesse suonare così fottutamente uptempo, però è una delle mie preferite, ancora oggi. E Il cielo su Torino lo sentivo mio, anche se all’epoca a Torino ci ero stato solo coi miei, non mi ricordo nemmeno per cosa, e lo vedevo riflesso sul cielo di Vercelli, riverberarsi d’amore e odio. Albe meccaniche era la mia ferocia contro me stesso.

Il tempo di un paio di dischi e mi disamorai dei Subsonica. Fidatevi quando vi dico che erano più di dieci anni che non mettevo su questo disco, e per scriverne al meglio, una sera mentre andavo a lavoro, con la pioggia battente, l’ho messo su in auto. È stato come se non fosse passato un attimo, non quasi vent’anni, Cristo. Eppure eccoci qui, a fare i conti col passato e col presente. Che è un po’ quello che devono aver pensato i Subsonica quando hanno deciso di rimettere mano al proprio capolavoro, fino a tramutarlo in “Microchip Temporale”.

Photo by: Chiara Mirelli

La decisione di chiamare a raccolta gli artisti che oggi girano più spesso in radio e sui canali digitali è giusta. Sì, anzi, è perfetta. La sposo al 200% e non avrei accettato null’altro, e provoca in me le stesse reazione che i più vecchi di me diversi lustri fa ebbero ascoltandolo: disappunto. Forse è così che deve andare, questo è un disco che deve dare noia a quelli più grandi, e poco importa se oggi ho l’età che molti di questi hanno, più o meno, gira e rigira. Il punto è l’età di chi li ascolta ora, come noi al tempo ci imbattevamo nei ‘Sonica e tutti gli altri, oggi c’è questo e con questo dobbiamo avere a che fare. Ce lo meritiamo.

Se non lo sapete questo è: Achille Lauro, Nitro, Lo Stato Sociale, Coma Cose, Coez, Myss Keta, Cosmo, Motta, Elisa, Willie Peyote, Ensi, Gemitaiz e Fast Animals Slow Kids. Ecco cos’è questo cosa c’è ora. E in me crea smarrimento. Difficoltà di comprensione, lentezza. Mi sento male, non tanto per il contenuto, ma perché mi rendo conto di essere quei vecchi che guardavo con disprezzo all’epoca, ai quali dicevo “che cazzo volete capire, voi?”. Questi giovani che ascoltano questi non-giovani potrebbero dirmi la stessa identica cosa, e avrebbero ragione. Non fosse per l’oggettività.

Comprendo tutte le ragioni che la band sciorina nei comunicati stampa e, ripeto, sono perfette e giustificabilissime. Rifare il disco, alla stessa maniera del ’99, ma portando il suono ad un livello più alto, facendosi accompagnare dalle star dei giovani, rendendo appetibile anche alle nuove generazioni qualcosa che potrebbero non comprendere a fondo. Missione più che compiuta. Non fosse per l’oggettività.

Mi sono così imposto di non partire prevenuto, nonostante io ritenga nulla assoluto tutti i personaggi coinvolti (quasi, Elisa l’ho amata, tanti anni fa, oggi no), un respiro profondo e l’ho messo su. Alla lunga lo sgomento mi ha chiuso cuore e gola, ma partirò da qualcosa di buono, perché c’è. Proprio Elisa è perfetta su Lasciati, la fa volare ancora più in alto, ammantandola di una bellezza femminea che nella canzone originale scivola via dalle dita di chi racconta, la migliora, se possibile. Centro pieno. Albe Meccaniche coi FASK è ancor più diretta e feroce, dritta e algida, incazzata e micidiale. Altro centro. Musicalmente la nuova versione di Perfezione è distruttiva, ficcante, industriale, sul finale persino metallica brutale e, mi spiace persino ammetterlo, Gemitaiz capisce quel che deve dire e lo fa, atrofizzato sul tempo, angosciante nella sua assenza di flow che qui diventa giocoforza, come un pugile pesto. Terzo strike. Fine.

Il fatto che spesso le parole di Samuel non fossero dritte al punto, come dicevo, era il plus totale. Qui distrutto dalle incursioni di, uno su tutti, Achille Lauro, che mischia all’amarezza di Il Mio D.J. il suo tocco fuori luogo, di gangster frivolo che si spaccia ironico ma che si pialla sulla sua insipida retorica del nuovo “diverso” (“io sono il tuo dj, passo la notte in questura/io sono il tuo dj, dentro i miei soldi c’è l’anima”), e proprio questo ponte con Coccoluto io non l’ho affatto percepito. Tutti i miei sbagli è autodistruzione, la ballad che non lo era lo diventa qui con Motta, che squaglia tutto il pathos e lo vanifica. Myss Keta butta lì un paio delle sue boutade casuali su Depre, fa l’elenco farmacologico con Samuel e ce ne si dimentica in fretta, per la propria sanità mentale. Impalpabili Lodo Guenzi e compari che abbattono Liberi tutti, col proprio vocabolario hipster che ormai ha stufato persino noi detrattori. Non capisco cosa faccia Nitro su Colpo di pistola, limite mio.

Ma i peggiori sono Coez e Cosmo. Il primo ammorba Strade e chiuderei qui per non scadere nel triviale poiché sto ancora cercando di comprendere cosa ci trovi la gente in questo ragazzo, il secondo – qui complice la riscrittura in toto dell’impianto musicale – è lapide sul ritmo da demone del dance floor di Discolabirinto. Certo, è davvero un ritmo “da club” a.D. 2019, quindi è perfetta, scarna se non proprio vuota, con le casse dritte a palo su melodie vacue, lui a provocare imbarazzo, almeno a me. A tanti altri stupore. Così van le cose.

Se “Microchip Emozionale” era “Il Quinto Elemento”, “Microchip Temporale” è “Maze Runner”. Ed è la distopia perfetta per il 2019. Un momento storico in cui le cose vanno dette in faccia altrimenti non si capiscono, le figure retoriche non servono ad un cazzo, la letteratura è roba da dinosauri, in fin dei conti, e l’immaginazione è uno stereotipo da archeologia del passato recente che recente non è più. Viviamo in un mondo troppo veloce e in un tempo effimero perciò diviene inutile soffermarsi sulle cose. Meglio un colpo di pistola dritto in faccia, quello lo si capisce sempre. E i Subsonica lo sanno meglio degli altri.

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