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“Diamond Eyes”, un mostro candido ed elegante

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Sono davvero tanti i ricordi che mi legano ai Deftones, così tanti che metterli tutti per iscritto mi sta costando molti più articoli di quanto avrei immaginato. Nel 2006 riuscii per la prima volta a trovarmi davanti alla band di Sacramento, in occasione del Gods Of Metal di quell’anno. Per me fu un evento unico, poiché cinque anni prima non ero abbastanza grande, e dunque indipendente, per andare al loro concerto milanese assieme ai Linkin Park. Era – ed è – uno dei proverbiali rimorsi. Ma che ci volete fare? Dunque li vidi all’Idroscalo per la prima volta, e ancora non sapevo che erano al loro minimo storico (per me era un dio tutt’altro che minore incarnato in band quello che suonava su quel palco) ma, soprattutto, che non avrei potuto rivedere mai più Chi Cheng. L’incidente se lo portò via.

Eros”, il disco perduto, non riemerse mai dalle ombre, le stesse che stavano inghiottendo Chi. I Deftones presero così l’ardua decisione di andare avanti. Non oso immaginare come una band già in difficoltà sia riuscita, a mente tutto fuorché lucida, a trovare la forza per farlo. Ma Chino, Abe, Steph e Frank sapevano che quella era l’idea giusta. E lo fu. Sergio Vega dei Quicksand (da sempre fissa di Moreno) entrò nella famiglia, e anche questo dev’essere stato un peso non indifferente da portare. Un carico emotivo di tale entità non poteva non sfociare in qualcosa di immenso. Non se a scriverlo sarebbero stati i Deftones.

Così fu. “Diamond Eyes” era il colpo più duro, la punta inscalfibile di un gioiello di carriera, ma il primo incontro col destino musicale del gruppo fu difficile da digerire. Era tutto diverso, dalla line-up al produttore. Terry Date non sedeva più al banco mix da molti anni e per il nuovo corso del fiume il quintetto scelse Nick Raskulinecz. Il mio tanto odiato. Mi lasciò di sasso, lì per lì, ma non potevo fermarmi a quel punto. L’ortodossia non è una strada praticabile e per tutta la durata dell’album è come se si sentisse un frullio d’ali, qualcosa che si libra nell’aria, pronto a predare volteggiando nei cieli freschi delle notti d’estate (perfetta dunque l’orrida copertina). 

Il sangue che scorre nelle vene del disco è sangue fresco che presto si scalda mandando in ebollizione il sistema operativo. Delle lunghe e slabbrate distese di “Saturday Night Wrist” non c’è traccia, segno di un ennesimo cambio di rotta. Sono correnti ascensionali quelle che sostengono tutta l’architettura vitrea del disco, Steph è protagonista indiscusso con chitarre potenziate, asfissianti, capaci di impreziosire le aperture vocali di Chino. È proprio il frontman a muovere il timone nel mare in tempesta, e si sgola come non faceva da un bel pezzo, è ispirato e le sue astrazioni liriche si perdono in labirinti sempre più contorti. La sezione ritmica di Sergio e Abe sembra collaudata da sempre, cesella i comparti, fa tremare le pareti. Non è un disco lineare, non è un disco che ti aspetti, è sognante anche quando schiuma di follia, romantico quando i refoli di vento si fanno freschi e spazzano gentili orizzonti crepuscolari. Un’immensa poesia dai risvolti rosso sangue, che cola dal becco di un mostro candido ed elegante. Impossibile per chiunque, tranne che per loro, mischiare disperate incursioni metal, leggerezze trip hop e piegamenti post-hc con tanta grazia. 

Il sentiero dei miei ricordi riprende una sera di giugno a Collegno. La canicola sale dalla terra davanti al palco, prima calcato dallo scempio dei Linea 77 (chi c’era sa, se non concorda mente sapendo di mentire). L’attesa dei Deftones è estenuante. Riesco ad intercettare Chino mentre sale sul palco. La sua figura allampanata e il sorriso stampato sul viso rilassato, gli porgo il biglietto e lui lo firma, come se non stesse per fare quello che farà, ovvero demolire il palco. Suonano incessantemente, su Minerva proprio lui attacca male con la chitarra sulla ripresa finale, ridacchia, si gira verso Abe che sorride complice, riprendono come niente fosse. I brani del disco nuovo sono già giganteschi. Dal lato del parterre sorrido come un bambino. Dieci anni dopo, a ripensarci, sorrido ancora, involontariamente. 

No one goes off in every way, like you do”. Davvero.

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