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“Amnesiac”: il delicato equilibrio dei Radiohead

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Gli anni dieci sono appena iniziati, e con loro la scuola superiore. Comincio timidamente ad addentrarmi in mondi musicali meno convenzionali, grazie ai soliti amici o conoscenti incontrerò nel mio cammino gruppi come i Primus, i Melvins, artisti che irromperanno nella maggior parte dei momenti della mia adolescenza. Passo dopo passo prende forma la mappa con la quale mi orienterò alla ricerca di nuovi suoni e nuovi orizzonti negli anni successivi. Ma c’è un momento che più degli altri cambia radicalmente il mio modo di concepire la musica nella sua totalità, l’essenza e il significato che può avere per me come per una collettività, e questo momento è la scoperta dei Radiohead.

In realtà più che un momento è una lunga serie di attimi, una cronologia di passi che mi hanno avvicinato, e in seguito congiunto indissolubilmente a questa band. Uno di essi, di fondamentale importanza è stata la visione del film “La donna che canta” di Dennis Villeneuve. Nella scena iniziale ad accompagnare le immagini c’è una canzone che mi colpisce e mi affascina particolarmente, una canzone straordinariamente potente ma al contempo fragile, che offuscherà la mia percezione di tutto il resto della pellicola. Scopro che il brano in questione si chiama You And Whose Army, e si tratta di un pezzo dei Radiohead. Poche volte una canzone mi aveva fatto un tale effetto, mi aveva stregato in un modo che non credevo possibile, decido dunque di approfondire. Da qui all’amore incondizionato passa del tempo, non è un approdo immediato e gli ascolti saranno tanti e prolungati, soprattutto nello stereo della macchina di mio padre, con i suoi cd “diversamente ufficiali”. “Kid A” è il primo traguardo, l’album che accende una miccia e mi motiva a proseguire, ma ancora non è scattato quel qualcosa. Questa molla si attiverà con il suo successore, ovvero “Amnesiac”.

“While you make pretty speeches
I’m being cut to shreds
You feed me to the lions
A delicate balance”

L’album in questione non compare spesso in classifiche o sondaggi sui “migliori album di sempre”, e anche in quelle sui lavori del gruppo solitamente si trova nelle posizioni più basse. Per me è l’esatto contrario. “Amnesiac” è la chiave che mi ha aperto le porte della discografia dei Radiohead, e nonostante i pareri più diffusi continuerò sempre a sostenere che in esso si possa trovare la perfetta sintesi del percorso fatto dai cinque di Oxford fino a quel momento, fino a scorgere le sue future diramazioni, nonostante (ma forse proprio a causa della) sua frammentarietà. 

La struttura del disco è l’elemento che per primo mi colpisce e mi affascina, questa alternanza tra sonorità aspre e avvolgenti, tra il freddo delle macchine e il calore del piano o della chitarra. Il passaggio dai crepitii elettronici e l’atmosfera claustrofobica di Packt Like Sardines In A Chrushd Tin Box alla viva e pulsante apertura di Pyramid Song è un momento iconico, che segna il pattern dell’intero disco e contemporaneamente fa scoccare quella molla nelle mie orecchie da tredicenne che fino a questo momento non si era ancora mossa. La cupa malinconia della traccia di apertura sembra dettare il mood dell’intero album, ma subito dopo come una coltellata in petto il pianoforte etereo di Pyramid Song spazza via tutto, lasciandomi senza fiato a fluttuare in uno spazio denso e ovattato, rotto improvvisamente dalle taglienti rullate di Phil Selway in uno dei momenti più alti non solo dell’album, ma della musica degli anni duemila. Ascoltare una band capace di dare una voce così personale e “umana” a una strumentazione elettronica e al contempo pugnalarti il cuore con una delle ballate più intense e magiche della Storia è qualcosa di unico, quasi impossibile.

Il paradigma freddo/caldo si accentua ulteriormente con i due brani successivi, Pulk / Pull Revolving Doors e la sopracitata You and Whose Army. Dopo un febbrile e allucinato incubo cibernetico che sembra inghiottire ogni cosa intorno a sé, l’ingresso in pianissimo della chitarra e della voce così fragile e sussurrata di Thom Yorke fa venire i brividi. Sembra un lamento, una preghiera, ma le parole sono piene di rabbia, di sfida verso chi pensa di poter ingannare popoli soggiogato dal suo potere.

“Come on, come onHoly Roman empireCome on if you thinkCome on if you thinkYou can take us onYou can take us on

Improvvisamente la ferocia della canzone esplode grazie all’ingresso della batteria ma soprattutto del piano, il cui attacco travolge con una forza che non credevo possibile, non perdendo per un secondo il suo calore. Potrebbe finire tutto qui, con le macerie lasciate da una canzone che dopo decine e decine di ascolti non perde un briciolo della sua intensità, ma il cd continua a girare e vengo travolto nuovamente, questa volta dall’elettricità acida di I Might Be Wrong, dalle sue chitarre abrasive e dai colpi serrati della batteria elettronica. Senza rompere questo precario equilibrio di forze si va avanti con la malinconica dolcezza di Knives Out e Morning Bell / Amnesiac e con lo straniamento di Dollars and Cents e Like Spinning Plates

La conclusione è affidata a Life In A Glasshouse, una struggente ballata al piano, nella quale si inserisce un’ensemble di fiati alla New Orleans, che conferisce a questo episodio un carattere mortuario, un funerale jazz come quelli della città della Louisiana. Grazie a questi elementi si passa finalmente e definitivamente dalla macchina all’uomo, dalle trame elettroniche alla fragilità e all’imperfezione umana. Il ritmo cadenzato sembra trascinarsi stanco battuta dopo battuta mentre i fiati zoppicano e si incrociano, zigzagando attorno al pianoforte, per poi soffiare a pieni polmoni sul ritornello, facendo sentire più che possono l’essenza della vita, del suo carattere terreno e manchevole, con un timbro un po’ oscillante ma di un’intensità che quasi fa male.

Non poteva finire in modo migliore “Amnesiac”; un album difficile, frammentario, multiforme, ma proprio per questo intriso di un’autenticità sorprendente persino per una band come i Radiohead, la cui voce è sempre stata pura, senza maschere o diversivi. Le loro due facce guardandosi si scoprono una sola, in questo disco più di ogni altro della loro carriera.

Tutto ciò ancora non lo avevo capito allora, ma in qualche modo lo avevo percepito, e scrivendo queste righe trovo un’ulteriore spiegazione del perché “Amnesiac” mi abbia colpito così tanto e continui a farlo ancora oggi.

“There was nothing to fear, nothing to doubt”

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