Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“The End Of Silence”, i chiaroscuri di un mondo violento dipinti da Henry Rollins

Amazon button

Henry Rollins, sessant’anni meno di dieci giorni fa. Henry Rollins e le sue parole, in forme sempre diverse, i cui significati hanno mutato pensieri, fino ad una certa, poi è entrato solo da una parte della leggenda, perché l’altra, quella che poi ha battezzato tutto il resto della sua vita, non voleva esserlo. Forse nemmeno prima, mentre reggeva l’asta della Black Flag alta, con gli altri tutti attorno, e anche lì, non parlava solo di feste davanti alla TV o di scannarsi di birra, c’era la depressione, un enorme pugno in faccia, peggio di quelli che dava lui quando si esibiva dal vivo, perché se già vivere è difficile, farlo sotto pressione è anche peggio.

C’è qualcosa di negativo nel male? La risposta più semplice è sì, ma il male ha tante sfumature, e così come il male, anche il bene, la positività ne ha altrettante. Un messaggio positivo può avere anche un rumore e può trasudare male da tutti i pori, può impigliarsi nelle maglie della rabbia, può essere gridato, gliel’ha insegnato Ian MacKaye, sempre al suo fianco, e gliel’ha insegnato la vita. Pochi mesi prima dell’uscita di “The End Of Silence”, Rollins e il suo amico Joe Cole vengono rapinati, a Venice, Cole viene ucciso. Rollins sente una voragine aprirsi sotto i piedi, ancora una volta L.A è un posto insensato, violento, pericoloso, estremo, va a dirlo in TV, anziché parlare del disco in uscita, chiede a tutti di comprende lo stato delle cose, richiama la positività, tre minuti di questo, e null’altro.

Che non ci fosse solo hardcore, nell’anima e nella gola di Henry nel 1992 era già più che chiaro, ma lo era anche a fine ’80, e quel mondo quando si è evoluto, uccidendo il precedente, lo ha fatto scontentando i kids che non volevano crescere, ma che importa? Anzi, a chi importa? Non a Rollins, cresciuto coi dischi della madre, da Joplin a Monk, passando per Davis, Coltrane, Sonny Rollins, né ai suoi musicisti. Sim Cain, Andrew Weiss e Chris Haskett hanno suonato, suonano e suoneranno da tutte le parti: Ween, Bowie, Marc Ribot, Foetus, Butthole Surfers, Pigface e chi più ne ha più ne metta. L’hardcore, il punk, è solo la prima fase, poi arrivano il jazz e le avanguardie, il noise, il rock, quello che diverso lo è sul serio, quello che make you “starve creatively”, Rollins dixit.

La Rollins Band, in questa incarnazione (ma lo sarà anche nelle successive), è espressione di ferocia e classe, è una band che conosce il mondo del rock e lo fa suo, traducendolo in quel linguaggio tanto caro agli anni ’90 e al loro perno principale, quello che spadroneggia su MTV al pari di tante futilità pop, ma divora se si è troppo esposti, e, soprattutto, se si ha un messaggio come quello di Henry. Low Self Opinion e Grip sono un grido in pieno volto, un urlo primitivo che porta con sé tutta la Positive Mental Attitude (già ampiamente esposta da H.R. e dai suoi Bad Brains), esposta con cipiglio feroce, senza sorriso, così Rollins sbraita che sa benissimo che il dubbio s’insinua e fa vacillare, ma che ci si potesse vedere coi suoi occhi si capirebbe meglio che c’è molto altro, e molto di più, ma, soprattutto, che il rispetto di sé è la cosa più importante di tutte, va oltre la merda che dobbiamo affrontare o che mangiamo volontariamente.

C’è tanta frustrazione, passata, presente, e la sua reazione, c’è l’amore tossico descritto in Obscene, gli Zeppelin (Henry e Ian li videro dal vivo restando inebetiti alla strabordante energia dei quattro inglesi) come fossero spiriti guida, le chitarre circolari, volatili, tribalismi sanguinolenti, bassi che rompono le pareti, l’anaffettività, il gelo e l’alterità perduta di You Don’t Need, immersa in una luce alternative e la pesantezza devastante di Almost Real, che riflette un uomo che sta lavorando duramente sul suo livore, anche nei confronti di chi ha approfittato di lui e di come gli umani siano fondamentalmente tutti uguali, sotto lo strato dietro cui si nascondono, la rabbia di uno è la rabbia dell’altro, il confine è labile, così labile che finiamo per fonderci in tutto questo fuoco che divampa.

The End Of Silence” è sì la fine del silenzio, ma allo stesso tempo è rumore che divampa, prorompe sulla scena e ci mette davanti a quello che potremmo fare: cambiare, accettarci oppure soccombere.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati