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Back In Time

“…I Care Because You Do”, dentro il ghigno di Aphex Twin

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a.D. 2021: Aphex Twin e il suo doppelganger Richard D. James sono un’icona. Nell’epoca in cui il “Neuromante” dovrebbe essere la nostra realtà e invece è un sogno, in un’epoca di post-intenet, post-verità, post-tutto, in cui tutto è metanarrativo, meme, anche AT è parte integrante. Icona, dicevo, il suo simbolo, il nom de plume del produttore, che quando ancora era figura non definibile ci metteva il volto. Ci metteva il ghigno. “That smile…that damned smile”. Meme.

a.D. 1995: Aphex Twin prende un pennello e si fa un autoritratto. Osa, si mostra. Un volto tutto tranne che rassicurante, lo sguardo in tralice, maligno. È al suo terzo album, è già un punto di riferimento per quell’elettronica che stava crescendo, anticipava i tempi, Richard, ma era allo spartiacque. I suoi strumenti analogici, che torneranno nel nuovo Millennio, un secolo più tardi, ma che qui sono le sue estensioni naturali. Gli album di Aphex non sono che raccolte delle sue ricerche, del suo peregrinare attraverso il tempo e lo spazio.

…I Care Because You Do” è oltre i “Selected Ambient Works” e le “Analogue Bubblebath”, è un titolo che ingombra la realtà, “mi frega perché a te frega”, è freddo, di un gelo albionico, bionico, che fonde l’umano alla macchina. AT è compositore, e lo dimostrerà ampiamente con “Drukqs”, uno di quei dischi che non hanno tempo. “…I Care” invece si porta appresso tutto il peso della musica concreta, della sperimentazione che travalica la concezione elettronica per entrare in un regno di mezzo, quello in cui il club può tranquillamente essere un’installazione d’arte contemporanea, un film di Ridley Scott proiettato in un cinema senza poltrone, con il pubblico a ciondolare ipnotizzato.

La sensazione claustrofobica della materia sinstetico-analogica, lo strumento primo del mago del circuito che divora le pareti dell’ambiente circostanze, il suono esiziale di un pianeta immerso in una notte sempiterna, “…I Care” vive in una piega della narrazione tutta sua, prelude a quei produttori britannici che verranno di lì a poco sconvolgendo tutto, se tutto avesse avuto bisogno di essere sconvolto, perché ci aveva già pensato Aphex, che tra il 1990 e il 1994 raccoglieva gli scampoli di ambienti in crescita, come quello trip hop, o già noti, la techno sia europea che d’Oltroceano e li faceva suoi, che pare di ascoltare un mutante assemblato con parti di Feldman e Glass (Philip e Richard s’incontrano davvero) su basi industriali, in mezzo a fabbriche che si autogestiscono roboticamente, il noise che debilita, fischi e ritmiche si accoppiano, le mani di Richard creano e fanno stridere l’incubo. È avanti rispetto a tutto e tutti, più future della future garage, più intelligent della intelligent dance music, più tecnato della techno più oscura, più bassobatteria di tanta d’n’b anarcoidale, più del più. Mi chiedo se ne sia mai stato realmente conscio.

L’anno successivo quel sogghigno diverrà marchio di fabbrica definitivo, riprodotto su copertine e nei video. Video che non lasciano scampo, mostri impressi su nastro o disco, che baluginano sugli schermi delle TV, e fanno paura. Come To Daddy era uno scherzo malriuscito ma si trasformerà nel suo tocco immortale, lo riproporranno i peggio mostri dell’hardcore del futuro, se ne innamoreranno persino i metallari (come faranno con The Prodigy), gli stessi che quand’ero ragazzino mi dicevano “ma l’elettronica è roba da truzzi oooh”, ma che sentendo quel mostro gridare se ne faranno una ragione. La strada battuta da Aphex Twin era di quelle che lanciano nel futuro e che lì si perdono, smarcandosi dagli anni e dalle epoche. Anche quelle in cui si diventa meme.

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