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Come se avessimo ancora 16 anni con “Freak Show” dei Silverchair nelle orecchie

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Avevo passato i giorni successivi al Natale a Pietra Ligure, con i miei. Avevano deciso di cambiare, per quell’anno. Niente stufe a cherosene in montagna, niente cene con i soliti amici alle quali mi era stato da sempre proibito bere. Da soli, al mare, per cambiare aria. Eravamo partiti il giorno di Santo Stefano, appena dopo i banchetti coi parenti. Avremmo soggiornato, per una settimana, in un appartamento lucido, al terzo piano in un complesso i cui palazzi avevano ognuno il nome di un segno zodiacale, ma ero riuscito a contrattare un Capodanno in città, con i miei amici. Eravamo nel Pesci, il vetrocemento dei parapetti dei balconi era intarsiato con una forma in ferro arrugginita che sembrava raffigurare due pesci, avvinghiati l’uno all’altro.

Mio padre mi accompagnò alla stazione di Albenga in automobile, era abbastanza seccato dal fatto che avrei passato l’ultimo dell’anno lontano. Non tanto per una sua necessità di controllo (avevo lasciato loro indirizzo e numeri di telefono nel caso avessero dovuto rintracciarmi, e sino a quel momento, comunque, non avevo combinato grosse sciocchezze, in giro), bensì per il fatto che non fossimo tutti uniti in famiglia per quella ricorrenza. Io gliel’avevo messa giù come se fosse una cosa alla quale avrei dovuto adempiere senza dover dare delle vere spiegazioni, e questo mi rattristava molto. Glielo leggevo negli occhi e nei suoi gesti, ma in fin dei conti loro sarebbero tornati il due di gennaio, ed ero stato con loro qualche giorno. No, era proprio la sera di Capodanno che gli interessava.

“Te prendi il treno che i milanesi prendono per venire giù, ma al contrario!”, mi disse, salutandomi stringendomi il braccio appena prima che il treno arrivasse, da Ventimiglia, a lambire la grigia banchina della stazione dalla quale partivo. Era l’ultimo primo pomeriggio dell’anno 1997 e per la prima volta in vita mia avrei passato, di lì a qualche ora, la notte di San Silvestro senza i miei genitori. 

Arrivò puntuale, direzione Genova Principe. Avevo il walkman nelle orecchie, ma mi ero anche prefisso di leggere qualche pagina de “La cognizione del Dolore”, il libro che la professoressa di lettere ci aveva assegnato per quelle vacanze natalizie. O per lo meno, l’ultimo che mi mancava da finire dei tre assegnati. Ma non riuscivo a concentrarmi. Sulla cassetta registrata apposta per quel viaggio, avevo incanalato alcune tra le canzoni grunge che più mi piacevano, ascoltate durante quell’anno, ed in più qualche brano di “Freak Show”, un disco di una band australiana uscito quasi un anno prima, consigliatomi da uno degli amici con cui avrei passato la serata. Avevo conosciuto meglio i Silverchair in una delle tante notti passate a fare zapping tra MTV Superock e Rai Tre, aspettando il momento giusto per far partire la registrazione di qualcosa che proponesse “Fuori Orario”. Grazie ad un videoclip, ovviamente. 

Si intitolava Freak. Loro tre, australiani, suonano in una sala prove gestita da un uomo in tuta spaziale che li sprona a pesare sugli strumenti, mentre nel frattempo la temperatura della stanza si alza in maniera vertiginosa e inarrestabile, grazie a delle enormi resistenze che tappezzano l’intero ambiente. In questo modo, il loro sudore viene raccolto, tramite un semplicissimo sistema di filtraggio e griglie, in un dispositivo atto a riempire siringhe. Arriva un’anziana signora, si fa una pera del siero raccolto in quelle siringhe e diventa un extraterrestre. Facendo persino sibilare la lingua nell’aria. Il cantante ricalcava, nel look, Kurt Cobain, ed era affiancato da due musicisti efebici, lontanissimi, nel look, sia dal grunge che dal punk, con i capelli rasati e nemmeno tanto alti. L’inizio del pezzo fu facilissimo da imparare a memoria, risuonando come una filastrocca: “No more maybes. Your baby has got rabies. Sitting on a ball in the middle of the Andes.”

A Genova le batterie del congegno di scaricarono poco prima che il treno si fermasse, sottoterra. Chiesi al capotreno quanto tempo di sosta avessimo, mi rispose “un po’” e scesi di corsa in tabaccheria a comprare altre quattro pile mini-stilo. Non avrei potuto sopportare il viaggio sino a casa senza musica. Piuttosto sarei arrivato in ritardo al cenone, fermandomi a Genova per la successiva coincidenza. Mi sentii leggero, quando il treno ripartì con me raggomitolato e al sicuro, nello stesso posto che avevo lasciato prima della tabaccheria. 

Nella cassetta, oltre ai Silverchair e a “Freak Show”, comparivano Pearl Jam, Nirvana, Faith No More, Collective Soul e Soul Asylum. La mia leggerezza e la mia agitazione, però, facevano sì che mi concentrassi, a suon di rew e ffwd, solo sui loro brani, in quel marasma di Seattle e grunge rockeggiante suonato così canonicamente, così bene. 

Gallerie e curve, poi ancora gallerie. Il sole che tramontava dietro di me, sul mare che mi accingevo ad abbandonare. Slave era una violenta e lunghissima introduzione al riff, pesantissimo, di Freak. È una canzone cigolante e ustoria, che aveva il difetto, però, di riportarmi troppo vividamente ai ritornelli che avevo già ascoltato mille volte su quella cassetta, ritornelli umidi e scalpitanti. Le agavi americane avevano lasciato il posto ad un paesaggio così brullo e desolato che nemmeno il più cupo dei Conan Doyle avrebbe saputo descrivere. Freak, invece, rappresentava un altro mondo, e un altro modo di suonare musica alternativa. 

Arrivammo alle ciminiere di Arquata Scrivia che non ero stato in grado, ancora, di superare i primi due brani dell’album. Il treno si fermò nei pressi di una fabbrica, di uno stabilimento. Vidi gli operai farsi gli auguri stringendosi accanto alle loro macchine, parcheggiate lì davanti prima che iniziasse il loro turno, e partì finalmente Abuse Me. Con la sua cantilena, la sua tenerezza e il suo ritornello così semplice, capace di sdoganare in poche parole dieci anni di sofferenze trasferite in musica. 

Cemetery arrivò quando, finalmente, Voghera mi riportò alla nebbia invernale della pianura più conosciuta. Riconoscevo quei violini: erano gli stessi violini che mi avevano fatto cadere nel tunnel degli Smashing Pumpkins due anni prima, mentre la nebbia saliva attorno alle luci dei treni in sosta sui binari della stazione della cittadina pavese. In meno di un’ora ero passato dal vento tiepido del mare alla foschia gelata. Mi strinsi ancora di più nel giubbotto pesante. Lie To Me assomigliava a Tourette’s dei Nirvana. Anzi, è una Tourette’s dell’altro emisfero, a riascoltarla ora. Fatta e finita. 

Fuori era ormai diventato buio e arrivai agli scambi tra Milano Lambrate e Centrale sulle note di Pop Song For Us Rejects, che con il suo denunciare ciò che di commerciale e senza pudore stesse accadendo in quegli anni, tra artisti e società, andava ad anticipare la splendida Anthem For Year 2000, contenuta nel successivo “Neon Ballroom”. “We are the youth, we’ll take your fascism away. We are the youth, apologize for another day!”.

Stavamo vivendo la fine del secolo in questo modo: sui treni, leggiucchiando, rannicchiandoci per non essere scoperti, presagendo che durante il prossimo millennio saremmo stati ammazzati di botte. Io ed altri. Gli stessi con cui mi accingevo a trascorrere l’ultima serata del 1997 e che mi avrebbero fatto ascoltare, per l’occasione, “Frogstomp”, il primo disco dei Silverchair, perché erano più grandi di me e ne sapevano sicuramente di più. Gli stessi che avrei rincontrato tra i banchi di scuola, gli stessi con i quali volevo metter su una band, la classica band di quando hai sedici anni. 

Dopo la foga di Centrale e le sue centinaia di anime in cerca di una soluzione per concludere, in qualche parte del Nord Italia, dignitosamente l’anno, arrivai a destinazione in una città semivuota, buia. I rumori umani, filtrando nelle pause concesse dalla selezione musicale che scaturiva dal walkman, mi arrivavano distratti, venendo sovrastati persino dal rumore dei miei passi.

Sono sicuro che se, a distanza di cinquant’anni, dovessi affrontare ancora una volta il percorso dalla stazione a casa mia, tornando da un viaggio, lo farei ancora con la faccia immersa per metà nel mio giubbotto, ascoltando il mio respiro come se avessi sedici anni. 

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