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Interviste

Il sangue indica la via: intervista a Jarboe

(c) J. Williams

Il nome di Jarboe attraversa il tempo e la musica, valicando limiti e confini di quello che era il mondo al di là del velo delle realtà che non si allineavano e mai lo avrebbero fatto. A metà degli anni ’80 la sua strada incrocia quella degli Swans e da allora né la sua vita né quella della creatura di Michael Gira sarebbe stata la stessa. Al di là dell’esperienza con la band newyorkese “più rumorosa di tutti i tempi”, Jarboe ha creato altri mondi, come quello del progetto Skin, condiviso sempre con Gira, che nel 1987 diede alla luce un album incredibile come “blood women roses“.

Da quel momento in poi Jarboe ha attraversato il mondo sotterraneo della sperimentazione, attraverso la vita di Skin/The World Of Skin, album solisti che si sono spinti ancora più a fondo nell’anima della musica più obliqua, tra oscurità e spirito, personaggi e figure in continuo mutamento, collaborazioni importanti, da Justin Broadrick ai Neurosis fino a Helen Money, senza fermarsi mai.

Oggi, a 35 anni di distanza, Consouling Sounds in occasione del Record Store Day pubblica una versione rimasterizzata e più completa di quel debutto che non sembra un debutto, ribattezzato “skin blood women roses“, con il suo nome a campeggiare unico sulla copertina. Quando mi è stato chiesto se volessi intervistarla ho temuto di sognare, o meglio, di collassare, perché non so spiegare quanto il lavoro di Jarboe sia importante per me. Non sapevo a cosa sarei andato incontro, come si sarebbe svolto il tutto, “concedetemi un po’ di paura”, diceva quel tizio là. Ne è scaturita una chiacchierata fantastica e a cuore aperto. Il disclaimer è che è un’intervista fiume in cui abbiamo parlato del disco, degli Swans e di molto altro. Il mio consiglio è di immergervi e lasciarvi trasportare.

(c) R. Collins

Buonasera Jarboe, come stai?

Tutto bene, però qui è già buio.

Qui in Italia non ancora, ma ci siamo quasi. Dove ti trovi?

Roswell, Georgia. È molto tardi, è notte. In che parte dell’Italia ti trovi?

Vivo nel nord-ovest, in una piccola città piemontese inchiodata tra Milano e Torino.

Bello! Ho dei buoni amici che vivono a Torino, Federico [Zanatta, ndr] dei Father Murphy, li conosci? Vivono a Torino.

Certo! Li adoro, mi è spiaciuto si siano sciolti.

Anche a me, perché erano perfetti. Abbiamo suonato assieme per un intero tour europeo, poi siamo andati in Tasmania, in Australia, per il festival Dark Mofo, poi al Roadburn, uno show totalmente sold-out in una grande chiesa e infine abbiamo viaggiato attraverso gli Stati Uniti. Era davvero delizioso collaborare con loro, credo siano la miglior band con cui abbia mai suonato dal vivo in vita mia. I miei amici sono angeli [ride, ndr].

Davvero, la migliore? È un pensiero forte! Tra l’altro quando li ho sentiti la prima volta non credevo nemmeno fossero italiani, mi ricordo di aver pensato “potrebbero arrivare da ovunque ma non da qui!”

È vero.

Non ricordavo avessero suonato al Roadburn e tra l’altro devo ammettere che non ci sono mai andato.

Quella è stata una gran esperienza, era la mia seconda volta in quel festival e il curatore ci ha fatto suonare in questa location davvero speciale, perfetta per loro, perché indossavano le tuniche ed eravamo in una chiesa e per di più sconsacrata. È stato incredibile, e la cosa più spaventosa poi è che c’era questa lunga fila di persone che volevano entrare. Una vera folla.

Ma poi in Olanda la gente ama davvero la musica e lo si capisce da dove e come sono posizionati i locali. Una volta sono stato al Le Guess Who?, al Tivoli di Utrecht e quel posto è piazzato proprio in mezzo a due case. In Italia non potrebbe mai accadere! Qui non appena la gente sente un volume appena un po’ alto chiama la polizia!

Lo capisco bene. Per come stanno le cose ora i concerti che facevamo – intendo quando ero negli Swans – sarebbero illegali. Non puoi nemmeno suonare al livello di volume a cui suonavamo noi, insomma, ci chiamavano la “band più rumorosa del pianeta” [ride, ndr], e l’altro giorno qualcuno mi diceva che sarebbe del tutto fuorilegge farlo, non potresti proprio. Qualche volta è capitato di dover smettere e fare su tutta la nostra strumentazione perché avevano una sorta di limiter che staccava la corrente e poi compariva la polizia, quindi anche allora accadevano certe cose. Ricordo di uno show in un locale di Ginevra, in Svizzera, in cui arrivò la polizia e uno dei poliziotti mi mise un braccio attorno alle spalle. Essendo proprio nel bel mezzo della performance non mi ero nemmeno accorta fossero saliti sul palco e mi ha spaventata a morte. Ci stavano obbligando a smettere e a scendere. È stato terribile.

Sai che è capitato anche a me? Stavo suonando un concerto in acustico con la mia band dell’epoca (quindi di sicuro non stavamo facendo casino) e me ne stavo lì con gli occhi chiusi a cantare quando ad un tratto mi accorgo che nessuno sta più suonando, apro gli occhi per capire cosa stesse succedendo ed ecco che vedo uno sbirro proprio lì accanto a me. Spaventoso.

Sì, sono davvero spaventosi, poi con quelle uniformi…

Mi chiedo come abbiano fatto a suonare i Sunn O))) a Torino, qualche anno fa, senza che la polizia intervenisse, coi loro volumi, e come invece sia comparsa durante uno show di Jojo Meyer. Forse pensavano fossero i Cannibal Corpse.

Sì, quando vai a sentire i Sunn O))) è importante portarsi dietro i tappi per le orecchie [ride, ndr]. Se ripenso a quei giorni, nei primi Swans, la “fisicità” era tanta, sai, le frequenze basse che ti facevano tremare gli viscere, la sentivi proprio dentro il corpo. Era veramente troppo.

Ecco, mi sono sempre chiesto, com’è stare sul palco con gli Swans, per quanto riguarda il fattore “rumore”? Li ho visti dal vivo diverse volte negli ultimi 6 anni o giù di lì, anche in posti molto grandi, ma tutte le volte i loro volumi mi hanno fatto impazzire.

Giusto l’altro giorno mi chiedevano come stessero le mie orecchie, ma i miei timpani stanno benissimo perché ho sempre indossato i tappi quand’ero sul palco con una band. Inoltre ho la mia spia e l’amplificatore mai puntati direttamente verso la testa. Devi farlo. Quando mi mettevo dietro alla tastiera mi facevo vedere bene da tutti che mettevo i tappi. Era una sorta di avvertimento per tutta la band. Conosco una persona in particolare nel gruppo che non li ha mai voluti, ovvero Michael [Gira, ovviamente, ndr], e ora ha alcuni problemi di udito. Sono cose irreversibili ed è un male. Persino Pete Townsend degli Who lo fa, e anche tutti coloro che suonano nelle band metal oggigiorno.

Qualche settimana fa leggevo che Dave Grohl ha ammesso di essere quasi sordo, non avendo mai usato i tappi. Visto che praticamente suona tutte le sere da tutta vita pensavo lo facesse.

Oh no, è terribile! Ogni musicista che ha i mezzi potrebbe anche farsene fare su misura solo per le proprie orecchie. Anch’io ne ho un paio, e sono particolari, bloccano le frequenze pericolose per l’udito.

Speravo stesse esagerando, data la mole di concerti in cui ha suonato negli anni.

Sì, anche perché è un cantante, e il rischio è anche quello di cantare fuori nota. Non lo sapevo, è una notizia terribile.

Tutto modo, prima di andare avanti, chissà quante volte te l’avranno detto, ma per me non è un semplice onore, è qualcosa di più. Semplicemente il tuo lavoro artistico mi ha sempre portato qualcosa di più, mi ha fatto scoprire cose nuove, non solo riguardanti la musica in sé e per sé.

Grazie mille, davvero.

Cosa ti ha portato alla scelta di ristampare “blood women roses”? Tra l’altro vedo dalla nuova copertina che il titolo è esteso aggiungendo “Skin”, il nome con cui lo faceste uscire all’epoca, il che lo rende “skin blood women roses”. Come mai hai scelto di incorporarlo al titolo?

Il motivo è molto semplice: ho parlato con Michael circa il destino di questo album e lui mi ha detto che avrei dovuto farlo uscire a mio nome. Dato che anche lui era coinvolto nella creazione del disco, mi ha dato il suo completo consenso e acconsentito che tutti i profitti sarebbero stati miei e allora ho deciso di slegarmi dal nome Skin. Inoltre ci sono altre persone, altre band e un’altra performer che utilizzano il nome che abbiamo scelto per il nostro progetto nel 1987, quindi ho pensato sarebbe stato meglio non creare confusione con questi artisti. È anche il motivo per cui siamo passati da essere Skin a The World Of Skin, poiché lì c’era già un altro gruppo che si chiamava così e il rischio sarebbe stato quello di veder sprecato tutto il lavoro perché ci sarebbe stato legalmente vietato di pubblicarlo. L’album uscito con quel nome era una sorta di compendio di due lavori distinti, una selezione di diversi brani. La versione in vinile è identica a quella originale, solo rimasterizzata, mentre quella in CD contiene tutti i 12”, i singoli che la Mute [la Product Inc., sottoetichetta della Mute, ndr] aveva pubblicato, ed è per questo motivo che lo preferisco. Era tutto materiale per l’album, ad esempio Come Out, che è presente nel vinile originale, nel CD invece non l’avevo inclusa, solo le versioni alternative. In pratica è stato come renderlo una sorta di storia unica, per chiunque avesse comprato o l’uno o l’altro.

Come mai avete scelto di farlo uscire in occasione del Record Store Day?

È stata un’idea dei ragazzi di Consouling Sounds, perché è un album storico, diciamo, registrato nel 1986 e pubblicato nel 1987, lo stesso anno di “Children Of God”, un momento che attesta il cambio di sound degli Swans. Da questo momento in poi sono subentrate più melodie, più parti cantate. È stato storicamente importante proprio per questo.

Proprio sulla questione della connessione tra questi album vorrei tornare più tardi. Qual è la connessione tra le parole pelle, sangue, donne e rose e cosa rappresenta per te ogni singola parola?

Per quanto riguarda la “pelle” rappresenta svariate aspetti, uno è che nell’album ci sono voci e persone differenti, e ciò che mette in contatto le persone è proprio la pelle, l’altro è introdotto da un passaggio nella rough version di Come Out in cui canto “the skin of my gun is smooth and soft”. Chiaramente non mi riferisco ad un’arma, bensì ad un sextoy, quindi la pelle è letteralmente coinvolta. Sono dell’idea che quando parliamo di diversi nomi è come se ci riferissimo ad altrettante voci e “indossare” diverse facce e quindi la pelle. Il sangue: in One Thousand Years il narratore è un vampiro e c’è un verso che recita “this body is a temple stolen from the Lord”, che è un riferimento all’essere “vampirico”, l’età cui si rifà il titolo della canzone è quello del suo sangue. Questa tematica torna in altri brani come Red Rose e Blood On Your Hands, che è un pezzo molto tribale. Parla di un gruppo di persone che si riuniscono in cerchio e contiene diversi tipi di vocalità e armonie. Ogni canzone ha un proprio collegamento col titolo dell’album; “donne” ha molti riferimenti e ad altrettanti tipi di donna, in Still A Child, Come Out, The Man I Love, con il suo senso di rassegnazione di una donna in particolare. “Rose”: nel video concepito per Red Rose c’è un corpo di ballo che si esibisce in numeri acrobatici, e c’è una donna, che era una sorta di star in quell’ambito, che con le sue evoluzioni mi ha reso veramente fiera di quel video. Infine, se osservo tutti questi elementi assieme, penso al colore rosso, al sangue. Mentre stavamo registrando, una di queste canzoni è stata messa da parte nonostante fosse scritta e finalizzata quando vivevamo in un appartamento vicino al cimitero di Highgate di Londra. Ci sono state parecchie discussioni sulla struttura del brano perché io volevo che fosse “ripetitivo”, tipo strofa-ritornello, strofa-ritornello, quindi con un’impostazione più tradizionale, cosa che invece a Michael non stava bene e perciò abbiamo cominciato a discutere, e quel giorno è iniziato il mio ciclo mestruale e c’era sangue sulle lenzuola del letto e guardandolo se ne è uscito dicendo “Sangue…è questo il punto” e da qui…”blood women roses”, e questo avvenimento ha sicuramente contribuito a come siamo giunti a inserire la parola “blood” nel titolo. Sulla nuova copertina c’è questa specie di effetto vintage, e uno strato di quella che sembra pelle, che poi è davvero pelle, quella di Phil Puleo, che ha suonato negli Swans e che ha curato l’artwork. Quindi abbiamo, una grafica “di pelle”, coperta da una patina di sangue e sul retro c’è la foto della mano di una donna su cui cola del sangue, ed è una sovrapposizione di un’altra foto del mio sangue che cola, e per finire abbiamo inserito dei petali secchi di rosa. In poche parole tutto l’immaginario del disco è letteralmente immortalato su fronte e retro [ride, ndr]. Comunque penso che l’idea della texture di pelle sia davvero geniale. Tra l’altro quelli di Consouling mi hanno fatto scegliere i colori e il nome di una delle versioni del nuovo vinile e ho scelto “Dracula”. Il colore è rosso e nero, con una sorta di effetto “schizzo” sopra.

Io credo di avere un vero problema con questo tipo di vinili colorati, questo poi si chiama “Dracula” e ora lo voglio a qualsiasi costo! Sono disposto ad attraversare mezza Europa, andare allo shop della Consouling Sound in Belgio e pregarli per farmelo avere.

Ma davvero, ho visto il colore e ho pensato “Eccola! È perfetta”! Tra l’altro loro hanno questo bellissimo negozio di dischi con una caffetteria annessa.

Al di là delle mie follie che mi portano, quando viaggio, a guardare dove e come sono i negozi di dischi prima dei musei, la cosa che più importante è che eventi come il Record Store Day sono davvero necessari, per ritornare ad una fruizione più fisica del fruire della musica. È stata seriamente una buona idea farlo uscire proprio in questo contesto.

Sì, ero davvero contenta quando me l’hanno proposto.

Facciamo un passo indietro. Premessa: sono nato nel 1986, proprio mentre stavate registrando il disco, e per me è sempre “strano” parlare di album usciti, beh, quando ero un neonato. Tutto modo, nel 1985 cominciavi la tua collaborazione con gli Swans, e due anni dopo nasceva il progetto Skin. Come mai avete deciso di crearlo, o meglio, quando avete capito che era un’entità distinta dagli Swans stessi?

Mi sono trasferita a New York nel 1984 e ho seguito gli Swans nel loro primo tour in Europa facendo la roadie, ero la persona che portava e spostava tutta l’attrezzatura. In pratica li aiutavo, ma era tutto molto interessante perché fumavano, bevevano, si stava svegli fino a tardi e io inizialmente ero vegana, non fumavo né bevevo, non mi drogavo, praticavo kick-boxe e mi sono palesata a New York con un aspetto molto “etico” e loro mi hanno chiesto se potessi portare, ad esempio, la batteria su e giù per le scale e ho pensato che, beh, sì, potevo farlo [ride, ndr]. In seguito ho realizzato quanto diversa fossi da loro, ma non mi hanno mai esclusa perché ero attratta da ciò che facevano musicalmente, volevo farne parte, poiché allora non avevo mai sentito nulla che somigliasse agli Swans. Anzi, forse solo gli Einstürzende Neubauten, ma a parte loro null’altro. Volevo provare a me stessa di poter far parte di questa esperienza. Fu nell’agosto del 1985 che mi chiesero di unirmi a loro, nello stesso momento in cui Al [Algis Kizys, ndr] è entrato nel gruppo come bassista, durante le prove per un festival a Los Angeles che si sarebbe tenuto a dicembre, che fu anche il mio primo live che feci con gli Swans e di conseguenza il primo tour, durante il quale non cantavo bensì suonavo l’Ensonic Mirage, utilizzato per creare questi potenti sample percussivi. Ci esibivamo davanti a un pubblico quasi esclusivamente maschile, di fronte a skinhead, in club punk, magazzini abbandonati in cui la luce saltava di continuo ed era tremendo, un’esperienza davvero brutale. Ma sai, stavo imparando anche a capire come funzionava questo mondo, andare in tour, non accettare compromessi se chiedevamo un impianto audio di grandi dimensioni, seppur in locali che non avevano un impianto elettrico abbastanza potente da supportarlo, cosa che ovviamente portava a far saltare tutti i circuiti del posto [ride, ndr]. Michael sapeva che stavo studiando per cantare, che avevo delle ottime capacità vocali anche perché gli avevo inviato alcune mie registrazioni e allora mi ha proposto di aggiungere seconde voci, o cose come il grido d’apertura di Time Is Money (Bastard), i cori su “Holy Money” e “Greed”, un’intera canzone. Michael era davvero interessato allo sviluppo del mio potenziale come cantante quindi si è parlato di fare questo album interamente focalizzato sulla voce al posto dell’effetto esplosivo della musica, dunque ci siamo spostati a Londra e lì abbiamo iniziato le registrazioni. In quel momento avevo già in mente di cantare una versione personale di Cry Me A River e The Man I Love, di reinterpretare alla mia maniera questi classici del jazz, oltre al fatto che avevo già composto parte della sezione musicale di One Thousand Years. Una volta arrivati abbiamo incontrato Daniel Miller della Mute – la cui sublabel avrebbe curato l’uscita del disco – che ci ha messo a disposizione uno dei loro studi di registrazione e un appartamento in cui vivere, ed è stato fantastico poiché in questo modo avremmo potuto concentrarci sulla musica e nient’altro. Michael ha a tal punto adorato il processo creativo che ha iniziato a ragionare sul fare un proprio album, qualcosa di più minimale e più improntato sulla vocalità, quindi ha cominciato a focalizzarsi sulle sue abilità canore. Quindi c’erano queste due idee, questi due album, ed eravamo solo noi, che alla fine eravamo negli Swans, e perciò abbiamo ragionato a lungo su come farli uscire e infine siamo giunti alla conclusione di usare, per il mio album, il moniker Skin. È nato tutto così, dalla considerazione che non volevo il tipico “wall of sound” degli Swans, la voce è stata volutamente registrata “tutta fuori” e senza tanti trucchi e al suo stato più naturale. Su Red Rose mi si può sentire usare questa tonalità da soprano, un’estensione davvero altissima, incredibile [ride, ndr]. Proprio l’altro giorno mi chiedevano se fossi sorpresa del successo del disco in Inghilterra e in effetti sì, mi ha colpito. Ad esempio Jack Barron, famoso giornalista musicale all’epoca, lo ha recensito intitolando l’articolo “Burst of the singer” ed è esattamente ciò che volevo trasparisse, il mio essere riconosciuta in qualità di cantante. È stato toccante.

Eccezion fatta per le due cover, il resto delle musiche sono state scritte da te, mentre i testi li ha scritti Michael, è così? Il lavoro era propriamente diviso equamente?

In realtà ho scritto le parole di One Thousand Years. Credo che Michael pensasse che ciò che cantavo fosse “letterale”, che parlassi di persone, esseri umani, e invece no, gli ho spiegato che il punto di vista, come ti dicevo, è quello di un vampiro, il quale vive per migliaia di anni ed è quindi esausto perché la sua esistenza non ha mai fine, anche se l’unica cosa che vorrebbe fare è morire. Lui l’ha rifinita inserendo una frase che trovo azzeccatissima, brillante, ossia “This body is a temple stolen from the Lord, I’ll walk in his shadow for a thousand years”, e facendolo mi ha resa davvero felice. Poi ci sono le versioni dub contenute nel CD, che sono in poche parole registrazioni di me che parlo, quasi dei rap, e riporto alcuni stralci di conversazioni che ho sentito per strada mentre camminavo di notte. C’era tutta questa strana, oscura umanità in giro. Potevi trovare prostitute, papponi e spacciatori parlare tra di loro e quel che ho fatto è stato semplicemente trascrivere queste conversazioni e una di queste era “I put on my gun and I got my trigger…cocked” (l’ho davvero sentita dire da qualcuno) e mentre la cantavo l’ho resa più…sessuale, anche se presumo non fosse l’intento di chi l’ha pronunciata in origine [ride, ndr]. La parte musicale è mia, sì, ma comunque è stato anche quello un lavoro collaborativo. Red Rose ad esempio era già pronta. Michael ha cantato per me Blood On My Hands ma era davvero diversa da come la immaginavo, sai, all’epoca il suo modo di cantare non era ancora molto raffinato, melodico. Comunque su One Thousand Years i crediti sul libretto sono anche suoi per il motivo di cui sopra, perché in quel modo l’ha ridefinita, era giusto fosse così.

Mi chiedevo proprio quanto ci fosse della tua persona all’interno di liriche scritte da altri, da lui nello specifico, perché ragionavo su come fosse interpretare e fare proprie parole che non sono nostre.

Da questo punto di vista possiamo definirla come un’unione ineccepibile, perché lui scriveva le parole per me e per nessun altro ed era perfetto. Al tempo ero una musa per i suoi testi e le canzoni che interpretava erano ispirate a me, come Jane Mary, Cry One Tear e altre. Nascevano dalle dinamiche che si creavano tra di noi e penso che quando lavoravamo a questi brani, e ogni volta che li ho interpretati andavo oltre al semplice fraseggio, al pensiero di come eseguirle. Era la parte migliore della nostra collaborazione. Non ho mai avuto un singolo problema con quanto scriveva, era del tutto eccezionale per quanto mi riguarda, e credo che lui ne fosse conscio. Mentre quando mi chiedeva una mano per gli arrangiamenti – che fosse per i suoi album solisti o per gli Swans – sapevo con precisione cosa suonare, quale melodia, cosa ripetere, cosa tagliare. Era un incastro perfetto. Mi viene in mente un’altra canzone per me estremamente toccante ed è The Other Side Of The World. L’ho scritta in un momento particolare dei miei studi sul buddhismo, forse il più intenso, è un brano che parla dei monaci, del Tibet e cantarla mi ha sempre emozionato. È arrivato in profondità di quanto stavo studiando, riuscendo a toccare i punti cruciali di quello che era per me il buddhismo ed è stato bellissimo. In realtà ce n’è un’altra, Her, una canzone che parla di me, che è un omaggio al mio essermi innamorata del suono degli Swans, una ragazza che entra in questo mondo rumoroso. C’è una registrazione di me nella casa dei miei genitori, un vero omaggio, e penso che la loro unione abbia giocato un ruolo fondamentale nella nascita della canzone.

Mi emoziona davvero sentirti parlare con tanto trasporto di queste canzoni. Spesso si commette l’errore di ascoltare una canzone o un album, e non pensare alle persone che li hanno scritti. Perché, al di là della musica in sé e per sé, questa è vita.

Vero, è una questione di fiducia, di mettere in mani altrui qualcosa che abbiamo scritto in precedenza. A tal proposito mi viene in mente quello che credo essere il momento più alto di tutti quelli che ho vissuto assieme agli Swans, ed è stato durante il tour del ’97 quando Michael mi spronò a realizzare una versione tutta mia di I Crawled, di interpretarla come meglio credevo. È un pezzo davvero epico ed è stata un’enorme responsabilità quella di reinterpretarla totalmente, decostruirla, di come il presentare una moltitudine di personaggi sul palco ogni sera non abbia influito sulla qualità delle mie performance, dai sussurri vulnerabili alle melodie cantate da una piccola ragazza sperduta, passando alle grida disumane mentre si chiede cosa le stia accadendo e infine la bestia che compare alla fine del pezzo e che utilizza una voce veramente bassa, simile a quella che usano certi cantanti metal. Un omaggio a come Michael cantava agli esordi, in maniera molto aggressiva. Ogni sera andava sempre più a fondo, in modo sempre più pesante; passare dalla ragazza fragile, alle grida, alla bestia che la cavalca, è qualcosa che si è radicato nella mia mente. Sento di averlo onorato proprio con l’ultima parte del brano e lui ha onorato me dandomi la possibilità di interpretarlo a modo mio, è stato qualcosa di grandioso, perché prima di tutto io ero una fan degli Swans. Ad oggi lo ritengo ancora il momento più alto del mio lavoro assieme a Michael. Quest’unica canzone. Tra l’altro non esiste una versione in studio, non è presente in nessun album e sono grata a Marco Porsia di averla inclusa nel suo documentario [“Where Does A Body End?”, ndr]. Quando gli ho parlato gli ho davvero chiesto di inserirla, perché l’unica cosa che ho da dire a riguardo è “Per favore guardatela, ascoltatela”, questo dice tutto.

Mi basta sentire come ne parli per capire quanto sia stato importante, tanto quanto per Michael far sì che potessi interpretarla. È davvero qualcosa di enorme.

A maggior ragione poiché quando fu scritta I Crawled io non facevo parte della band. È un cerchio che si chiude. Ripeto, a ripensarci è davvero incredibile, anche essere riuscita a cantarla ogni sera, con queste parti vocali, come dire, quasi acrobatiche senza perdere la voce, non è stato facile [ride, ndr].

In effetti non dev’essere affatto semplice. Sai, quando ascolto i tuoi album mi chiedo sempre “come fa a cambiare personalità e stile vocale in questo modo?”, davvero. Lo penso quando ascolto te, Diamanda Galas, Karyn Crisis, dato che siete tre delle mie performer e artiste più importanti, almeno per quel che mi riguarda.

È un approccio particolare. Non so come facciano le altre ma, per me, incarnare diverse personalità è una questione mentale. È qualcosa che non pensi si possa fare davvero, come un equilibrista che cammina su una corda, e non è un’abilità che puoi analizzare, è così punto e basta. Possiamo definirlo un approccio zen, non pensi a te stesso o a qualsiasi cosa ti accada attorno, incarni una sorta di essenza, oltrepassa la tua fisicità. Stai incanalando qualcosa, ne sei posseduto.

Prima parlavamo delle cover che hai scelto di inserire nell’album, ossia Cry Me A River e The Man I Love. Da quel che ho capito ti piace il jazz. Che tipo di jazz e quali artisti preferisci?

Certo, è il mio genere musicale preferito. Lo ascolto ogni giorno e lo adoro profondamente. Mi piacciono molti jazzisti, ma quello a cui sono più legata è senza dubbio Coltrane. Non posso farne a meno, amo qualsiasi cosa abbia fatto. Ha attraversato una miriade di periodi, tantissimi modi di intendere la musica. È il mio preferito, senza se e senza ma.

Niente da ridire, è la stessa cosa per me. Credo sia stato l’artista che ha scandagliato più a fondo il più largo spettro di idee musicali e spirituali della sua generazione. Io ho la mia triade perfetta quando si parla di jazz: Coltrane, Davis, Sun Ra.

Sono d’accordo con te. Sai che i membri dell’attuale incarnazione della Sun Ra Arkestra mi hanno chiesto di esibirmi in una serata in cui ci sarebbero stati anche loro, in Texas? Non potevo crederci, ero su di giri, ma c’è un solo problema, ossia che io in quel periodo dovrei essere in Europa. Chiaramente spero che tutto vada come previsto, che non ci siano altre chiusure, di modo che io possa venire lì in tour, ma sai, non dovesse andare così…il Texas non è così distante da qui [ride, ndr].

Resterei in tema della musica che si sente in “skin blood women roses”, perché ho sempre pensato che, da una parte, fosse una naturale estensione di “Greed” e “Holy Money”, dall’altra mi è parsa una transizione che poi ha portato ai mondi che avete poi creato con “Children Of God” e “The Burning World” (che è il mio preferito in assoluto, quando l’ho trovato in vinile sembravo un bambino al Luna Park), forse anche un’opera di classica contemporanea, a ben sentire. Tu come e dove lo collocheresti?

Credo che stia perfettamente dov’è, ossia proprio nel mezzo degli album contraddistinti dal “dollar sign”, “Holy Money”, “Greed” e “Time Is Money (Bastard)”. La cosa interessante è che ha influenzato direttamente “Children Of God”, poiché ci sono pezzi di “blood women roses” che potresti tranquillamente trovare su quell’album, tipo In My Garden, Blood And Honey, la title track, Blackmail di sicuro, sono tutte canzoni che emanano lo stesso tipo di vibrazioni del mio disco. Dal mio punto di vista l’anomalia del periodo di “Children Of God”, ecco, è il singolo Love Will Tears Us Apart. Quando Michael ci ha detto di volerla fare noi abbiamo reagito con un “Eeeh?”. In studio mi è stato chiesto di cantare il refrain e, beh, è stato terribile, perché c’era questa drum machine incessante, un sound così pop, e non era qualcosa cui eravamo abituati. Mi ricordo che io e Al, mentre andavamo in studio in auto, ce ne stavamo in silenzio molto a lungo, non sapevamo che farcene di quel brano, eravamo inorriditi. Ci siamo chiesti “Cosa diavolo è successo?” [ride, ndr]. Ho questo ricordo di me che canto la mia parte in studio e sento Michael che apre il microfono e dice “Sembra un coro di incoraggiamento di una partita di football, puoi farla di nuovo?” e io gli ho risposto “Michael, ma cosa vuoi? Mi stai chiedendo di fare qualcosa di così inusuale per noi…” e ho pensato “Buon Dio…”. Così siamo tornati il giorno successivo tentando un altro tipo di approccio, ma era comunque davvero difficoltoso a causa di quel “bum-chik bum-chik” continuo nelle orecchie, tutta quella roba pop…Era pure difficile cercare di cantarla. Insomma, c’è questa versione (la cosiddetta “Red version”) che proprio non mi piace ed è pure accompagnata da un video girato per MTV, e anche questo non mi piaceva, non ero per niente contenta. In seguito ci siamo recati ai Fun City Studios, un piccolo studio indipendente di Chelsea in cui avevano lavorato anche i Sonic Youth, per registrare la “Black version”, cioè la mia versione, in cui canto e suono le tastiere e con l’aggiunta di Norman [Westberg, ndr] alla chitarra. Michael ha ammesso che questa era la versione migliore delle due [ride, ndr], la amava, eppure non è nemmeno diventata un singolo, non è sul CD. Non è stato bello, perché mi ci sono impegnata molto. Trovavo fosse una versione davvero sincera del brano, col il suo cantato lento, senza quel ritmo forsennato dell’altra. In poche parole era qualcosa difficile da vendere, perché era più una questione di mostrare la mia anima al mondo intero. Insomma, odiavo la prima versione, e il video passava costantemente su MTV e la mia, invece, è finita nel dimenticatoio. Sono contenta che sia riaffiorata nuovamente e che ora si possa anche trovare in streaming su Spotify come singolo. È comunque stato un momento di svolta. L’A&R della MCA Records/Uni dell’epoca ha sentito la versione pop del brano e ci ha fatto firmare per loro, una major. Non so se gli piacesse “Children Of God” tanto quanto a me, il problema è che quel disco non ha nulla a che vedere con quella Love Will Tears Us Apart così pop. Quindi siamo entrati in studio per registrare “The Burning World”. Hai detto che ti piace quel disco?

Sì, lo adoro.

Ecco, a me non piace. O meglio, adoro le canzoni ma non apprezzo come sono state prodotte. La cosa strana della produzione è come sono stati mixati i brani. Il problema è sorto in fase di mixaggio. L’ingegnere del suono che se n’è curato [Jason Corsaro, ndr] era, credo, colui che ha lavorato al mix dell’album “Like A Virgin”, o Material Girl, insomma, uno che ha collaborato con Madonna e questa è stata, a mio avviso, una scelta sbagliata, nonostante fosse un brillante professionista. Né io né Michael avevamo il permesso di entrare in cabina di regia mentre lavorava ai brani. Michael non ha avuto nulla a che vedere con il risultato finale e questo è uno dei punti a sfavore, per quel che mi concerne. Cosa ancor più strana è che, secondo me, Bill Laswell non era la persona giusta per produrre il disco. Io, Michael e Norman avevamo in mente altri nomi, tipo John Cale o Flood (e lui ci avrebbe anche prodotti, solo che in quel momento era impegnato su qualche altro album), ma sai, mentre ci stavamo ragionando ed eravamo nella posizione di poter scegliere un produttore la persona che ci aveva messi sotto contratto aveva lasciato l’etichetta, dunque in pratica non c’era nessuno all’interno tra di loro che ci conoscesse o che avesse la più vaga idea di cosa facessimo. Eravamo come sospesi nel vuoto. Ci hanno mandati in tour ma non ci hanno dato alcun supporto. Tornando al disco, penso che le canzoni siano fantastiche, il processo che ha portato al completamento di “The Burning World” non lo è stato, perché non era quello che ci aspettavamo.

Come hanno reagito i vostri fan a questo cambio di sound? Siete passati da qualcosa di molto violento e aggressivo ad album come “Children Of God” e “The Burning World”.

Sai, in realtà “Children Of God”, dal vivo, era un’esperienza violenta, intensa e fragorosa, molto brutale. Abbiamo portato il disco in tour nell’Est Europa e siamo state una delle prime band occidentali ad andare in quei Paesi, molto prima che il Muro cadesse, la Repubblica Ceca era ancora conosciuta come Cecoslovacchia. Quando siamo entrati a Praga c’erano ancora tutte le bandiere rosse che sventolavano sui cornicioni. Tutti gli show erano sottoterra, e c’era tutta questa gente che protestava, seppur silenziosamente, contro il governo, ed erano tutti altamente qualificati pur facendo lavori che non rispecchiavano le loro capacità, ed erano considerati sovversivi dallo stesso governo che li ha obbligati ad accontentarsi. In poche parole ci stavamo esibendo di nascosto e non avevamo a disposizione impianti audio adeguati, ci facevamo bastare quel che c’era. Invece quando siamo tornati in Europa, utilizzavamo addirittura di un furgone per trasportare le casse. Gli show erano così potenti che, ad esempio a Londra, ci hanno staccato la corrente e tutta la band è scesa dal palco. Tutta tranne Michael, perché il suo microfono era ancora attivo. Il concerto si è concluso con lui che sbraitava verso il pubblico. È tornato in camerino brandendo l’asta e schiantandola contro il muro da tanto era infuriato. Quindi durante quel tour eravamo ancora belli furiosi, però hai ragione, quando siamo tornati lui era molto più legato alla chitarra acustica ed è stato scioccante [ride, ndr]. Suonavamo anche in occasioni più acustiche, si è trattato di un cambiamento forte. Comunque ricordo di quando suonammo Love Will Tear Us Apart a Manchester, con il pubblico che la cantava all’unisono con me. È stato strano!

Sì, ecco, mi chiedevo come i vostri fan avessero reagito perché, sai, i fan più duri e puri di norma non accettano sempre di buon grado il cambiamento. Vogliono e chiedono i brani più vecchi, letteralmente. Quello che ai concerti si mette a chiedere gridando qualche vecchio singolo della band lo trovi sempre. A te personalmente, in solo o con gli Swans è mai capitato.

Succede ancora, e me ne sono accorta. La gente vuole ascoltare qualcosa di riconoscibile. Comunque sono d’accordo con te, nemmeno io voglio sentire le hit [ride, ndr] e sì, con gli Swans è capitato eccome, ma durante i miei concerti no. Sai, il mio pubblico è formato più da artisti, da gente ordinaria che si lascia trasportare da quello che sta accadendo. Non ho questo fardello da portare.

Torno sulla questione dei temi trattati. Sbaglio o ci sono diversi fil rouge sparsi nelle composizioni che formano la tua discografia? La fanciullezza, un certo tipo di amore, le figure femminili e quelle maschili, e anche una sorta di spiritualità. Come pensi si leghino tutte queste cose tra di loro, sempre ammesso lo facciano?

Quando parli di spiritualità ti rispondo al cento percento di sì, quello è il filo conduttore che lega tutto, anche in molti dei lavori degli Swans. In ogni mio singolo album c’è un messaggio, un riferimento al buddhismo perché è il mio punto di partenza. Non cerco di predicare, inculcare un dogma, ne parlo in modo molto politico e le persone possono comprenderlo oppure no. Di certo non sto predicando. Mi chiedono perché parlo di “studiare il buddhismo” ed è perché non mi definirei mai in tal modo, è una questione di studio; sono nata e cresciuta come una cattolica, mia madre era una devota cattolica, perciò il mio background è prettamente cattolico. Ho scoperto il buddhismo al college e lì mi sono accorta di utilizzarne i precetti come una sorta di psicoterapia, che è il modo in cui gli occidentali si approcciano al tantra buddhista, per andare al di là di qualcosa. Ciò mi ha portato a superare molti problemi personali, leggendo i testi buddhisti, quelli del Dalai Lama e i suoi insegnamenti. Imparare questi valori è un percorso difficile, ma è un’esperienza formativa che porto sempre con me. Scrivo ogni album partendo da questo punto di vista. In “Illusory”, il disco che ho fatto uscire per Consouling Sound nel 2020 e il cui tour è stato cancellato a causa della pandemia (doveva essere un tour pieno di contenuti multimediali, in cui avrei suonato le tastiere, e lo abbiamo provato e provato e provato…), c’è un brano, la title-track, che non è una canzone scritta per un uomo, ma si rivolge a se stessi e che ci porta a riflettere sulla natura del sé, del proprio io interiore, e vi è contenuta la frase “I’m here, I’m still her”, e sono io che rispondo alla natura di questa dualità. Non è una canzone d’amore dedicata ad un uomo, come qualcuno ha ipotizzato in qualche recensione, cioè che fosse un brano dedicato a Michael. Bellissimo pensiero, ma non è così [ride, ndr].

L’ho recensito anche io ma giuro che non sono stato io a scriverlo. Comunque accade spesso che noi recensori, in quanto ascoltatori in primis, vediamo cose che non ci sono dove speriamo e crediamo debbano stare. Tutto modo ho trovato “Illusory”…come dire…più oscuro, forse? Ma neanche, forse più difficile da incarnare, più etereo, decisamente diverso dai tuoi lavori precedenti.

È l’album che ritengo essere il migliore tra tutti quelli che ho pubblicato. Ci ho messo tutto il cuore, tutto ciò che sono, perché in “Illusory” si annida tutto ciò che ho cercato per tanto tempo. Voglio che l’ascoltatore fluttui dalla title-track fino alla fine, senza pause. Ho iniziato qualcosa che continuerà anche nel prossimo album e forse per il resto della mia vita, ed è reinterpretare qualcosa che ho già fatto, anche negli Swans. Nel caso di “Illusory” si tratta di A Man Of Hate, uscita in origine su “Thirteen Masks”. Quel lavoro era una sorta di punto di partenza, con riferimenti alla letteratura inglese che avevo imparato a scuola. Il brano si apre con una risata demoniaca, invece in questa nuova versione, che trovo essere molto “piena”, mi costringo ad uscire da me stessa, e lo faccio rivolgendomi tanto agli “uomini” di ora che a quelli di allora, i cosiddetti leader, non di certo brave persone e che vedono se stessi al di sopra di chiunque altro in quanto governanti, persone come Trump, per intenderci. Nella canzone uso questa voce molto angelica, recitando “love, love, love, true love” e poi sul finale arriva il suono di una ghigliottina che scatta [lo imita, ndr], ciò che ne segue è solo silenzio e una nota di organo, e questo è un riferimento ai live degli Swans, con un finale in discesa, come se si stesse annegando, e poi tornavo sul palco, con una voce più riconoscibile e alla fine…”CHOP!” [di nuovo la ghigliottina e poi ride, ndr], me lo immaginavo. La cosa interessante è che dopo la mia proposta di inserirla nel brano ho letto che quella gente che ha fatto irruzione nel Campidoglio si è portata dietro delle ghigliottine per decapitare qualcuno. Non riesco ad immaginarmi niente di più oscuro del suono della ghigliottina. Assurdo come ci fossero alcuni di loro con delle magliette con su stampata la parola “amore”, “amore contro odio”, un movimento nato da tutto quel blaterare di “la mia gente”, “il mio popolo”, qualcosa detto da qualcuno che invece è pieno d’odio. C’era questa parte di un suo [di Trump, ndr] comizio con tutta “la sua gente” che gridava “LOCK HER UP”, in crescendo, e sai cosa?, credo sia la cosa più demoniaca che abbia sentito in tutta la mia vita. Non riesco davvero ad immaginare niente di peggio che sentire un’intera folla gridare cose di questo tipo. A questo di riferisce A Man Of Hate.

Ti giuro che non riesco ancora a farmi una ragione di come questa gente sia convinta di essere dalla giusta parte, della storia, della politica. Con tutti questi slogan pieni di odio, i loro dogmi. Parlano di Dio, ma sono così gonfi di cupidigia e oscurità. Qui in Italia siamo pieni di politici corrotti, la mafia ma quando ho visto queste persone…il “popolo di Trump” è così…

Ipocrita.

Ecco, sì. Sai, quando salì al potere Bush jr. pensai “Ok, abbiamo raggiunto il fondo”, e invece no, c’era ancora parecchio da scavare. Come possono credere ad un ammasso di – mi perdonerai il termine – merda come QAnon? Ma pure qui in Italia c’è un sacco di gente che ci crede!, che ammira Trump…

È quello che qui chiamiamo “gaslighting”, l’idea di convincere le persone che le bugie siano reali, nonostante sia provato l’esatto opposto. Il fatto che anche mostrando loro che le prove puntino in tutt’altra direzione loro lo ignorino totalmente. Questo mi manda fuori di testa. È una follia. È come andare da qualcuno dicendogli “Hai rubato una macchina, ti ho visto farlo” e una volta finito in galera per questo motivo continui a pensare di non averlo fatto.

Quando ho letto per la prima volta del cosiddetto “Pizzagate” sono uscito di senno. Ma che cazzo sta succedendo?

È tutta una questione di paura. Pensano che i liberali democratici siano socialisti, e questo dimostra come non abbiano idea di cosa sia il socialismo. Il punto è ottenere più uguaglianza sociale attraverso programmi che possano migliorare la vita delle persone, renderle più sane, e i repubblicani sono contro tutto ciò, poiché sono impegnati a salvare i più ricchi. Penso di aver pagato più income taxes [imposta sul reddito, ndr] dei miliardari, perché questi evadono il fisco. Ho questo ricordo di mia madre che, non appena ho avuto l’età per andare a votare, mi disse, parlando della sua famiglia: “Noi abbiamo sempre votato i democratici. Questa è la tua storia”, e l’ho sempre fatto non ho mai pensato di votare in altro modo. Perciò sono credo di essere la più grande nemica dei liberali democratici [ride, ndr]. Lo sarò sempre.

Dell’Italia posso dirti che al momento c’è una gran mancanza di ideali. Ci sono sempre destra e sinistra, ma la sinistra non ha nulla di ciò che è stata la sinistra, niente del socialismo europeo, anche perché il nostro Partito Socialista è stato coinvolto in un enorme “scandalo” legato alla corruzione. Quando avevo 18 anni, il che significa un po’ di anni fa, mi sono ritrovato a pensare “Ok, non c’è una vera sinistra da votare, per me”, ma ho anche pensato, forse ingenuamente, che sarebbe stato meglio nel giro di qualche anno, e invece no. Ora c’è solo un enorme centro, con i cattolici a guidare tutto, com’è sempre stato. La cosa che più salta all’occhio, per farti capire, è che c’è questo vuoto generazionale, tra gente come Trump o Sanders e quelle della generazione successiva. Non ci sono tante persone della mia età che fanno politica, e quando ci sono…

Ho visto proprio una notizia in TV a tal proposito. Venivano intervistati dei ragazzi giovani, in Europa, sulle loro preferenze politiche e questi rispondevano che non avrebbero votato perché non sapevano chi votare.

Esatto. Credo ci sia anche una sorta di errore di lettura circa l’idea di “uguaglianza”, se n’è data un’interpretazione in qualche modo errata che ci ha portati ad un appiattimento del tutto. Lavoro in ambito universitario e per me è doloroso vedere i ragazzi più giovani non trovare un modo per esprimere un proprio ideale, perché in qualche modo ce lo siamo portato via. Ad ogni modo, torniamo alla musica. Parlavamo di A Man Of Hate e io ho pensato subito a “The Men Album”, che è il mio preferito tra i tuoi (sì, ho un album preferito per tutti), e mi chiedevo se l’idea che hai approfondito in quel brano si riflettesse sull’album, parlando di uomini.

In realtà il punto di quel disco è che volevo collaborare con determinate persone, e volevo concentrarmi sul lavorare specificamente con degli uomini, è questa l’unica ragione. Se fossero stati bambini l’avrei chiamato “The Kids Album[ride, ndr]. Tutto qui, i cantanti erano uomini. C’è una cosa divertente circa una delle canzoni dell’album, ossia Feral. In pratica volevo un cantante che incarnasse la voce della follia, come fossimo in un manicomio vittoriano, e volevo fosse un cantante metal, così ho chiesto a Steve Von Till dei Neurosis se conoscesse qualche star del metal, una vera e propria rockstar [ride, ndr], e dato che loro non si considerano affatto in tal senso, mi ha detto che conosceva solo una persona perfetta per questo ruolo, cioè Phil Anselmo, aggiungendo però “Scordatelo, perché lui è una vera rockstar ed è difficile da raggiungere”, e allora mi sono rivolta a Maynard James Keenan. Maynard però era in tour, cazzo, era sempre in tour, raramente lo potevi trovare giù dal palco (una cosa simile mi era già successa per l’album con i Neurosis, che erano sempre in giro), così ho atteso, e lui mi scriveva via mail dal tour bus, dicendovi che aveva problemi, blabla. Quando sono tornati ero a Los Angeles e sono andata nello studio che condivideva con il tizio con cui suona negli A Perfect Circle e ho ascoltato questi suoi stralci vocali presi dal database e che potevano essere usati come sample, intanto ho approntato le mie parti e ho aspettato ancora. Alla fine mi sono stufata e mi sono detta “’fanculo tutta questa faccenda del cantato metal” e allora ho scelto Blixa [Bargeld, ndr], e lui ha preparato il tutto in soli due giorni. Ok, fatto, ho chiuso con le rockstar [ride, ndr]. Blixa era davvero la persona giusta da cui sarei dovuta partire. Ad ogni modo, quando mi sono messa a lavorare su “Mahakali” avevo ancora questa fissa di lavorare con Phil Anselmo. Gli ho raccontato cos’era successo, che avevo cercato di raggiungerlo per cantare una particolare canzone ma che Steve Von Till mi aveva dissuasa dal farlo, al che mi ha risposto [imita la voce di Anselmo, ndr], “È un uomo morto!”, al che mi sono affrettata a dirgli “No! No!”, non volevo mettere nei guai Steve [ride, ndr], così ha aggiunto [l’imitazione continua, ndr]: “Se me l’avessi chiesto, l’avrei fatto senza problemi!”. Così ci siamo recati nel suo studio in Louisiana, ed ero lì a lavorare con questa persona che pensavo inavvicinabile, e invece è stato tutto molto facile e rilassato. [voce di Phil, ndr] “Non vuoi fare un album metal, vero? Perché ne ho basta, non lo vorrei fare”, e io l’ho rassicurato che non fosse un disco di quel tipo, era una cosa mia, e così gli ho illustrato il brano, un blues su un disastro ambientale, poiché quello della distruzione era il tema principale di “Mahakali”, e dunque il contenuto avrebbe trattato del surriscaldamento globale, e che non avrei utilizzato alcun effetto sulla sua voce. Volevo che fosse del tutto naturale, come se stesse cantando mentre se andava in giro per la Louisiana, ed è esattamente ciò che ha fatto! L’ho adorato!

Sai, quando ho letto della vostra collaborazione, prima di ascoltare il pezzo, ho pensato “Ok, questo sì che sarà un pezzo duro”, poi l’ho messo su e…”Cazzo, è un pezzo blues!” All’epoca non avevo mai sentito Phil cantare in questo modo, certo, c’erano degli accenni negli album dei Down. Da quel momento in poi ho sognato che Phil facesse un disco interamente blues. Mi è poi capitata la stessa cosa sentendolo cantare Would? con gli Alice In Chains. Per me Phil è questo: è blues, è grunge. Basta con tutto ‘sto metal.

[ride, ndr] Ma sai che gliel’ho detto? Gli ho suggerito di comporre un album interamente blues, senza growl o altro, perché ha una voce stupenda. Ero entusiasta di come ha interpretato la canzone. Comunque sono d’accordo con te, penso sia noioso continuare a fare sempre la stessa cosa, e non mi piace il modo di cantare tipico del metal, perché sembra tutto uguali. Conosco un altro cantante metal che ha una bellissima voce, ed è il mio amico Attila [Csihar, ndr], anche lui è su “Mahakali”. Ho sentito il suo progetto Void Of Voices ed è splendido! Utilizza tutte queste vocalità differenti e io lo preferisco di gran lunga in questa veste.

L’ho sentito esibirsi con i Sunn O))), su questo enorme stage al Primavera Sound Festival, ed erano così…mostruosamente rumorosi! E la sua voce era pazzesca, totalmente diversa che con i Mayhem, era così…

Bassa [ride, ndr]? Sì, è magnifico con i Sunn O))). Abbiamo suonato The Soul Continues un paio di volte dal vivo, una a Budapest, in Ungheria (che poi è il suo Paese natale) e un’altra volta…sì, all’Inferno Fest, ad Oslo, e c’erano tutti i suoi fan più duri. È stato grandioso. Poi lui è un vero gentlemen, una persona magnifica. Federico lo ha portato a Torino per una performance, e lo ha portato al Museo del Cinema e mi ha detto che guardava dappertutto con i suoi occhi enormi.

Vorrei chiudere l’intervista chiedendoti com’è cambiata e cresciuta Jarboe dall’uscita di “blood women roses” e com’è invece cambiato il disco? Quanto c’è ancora di quel lavoro nella te di oggi?

Non lo ascoltavo da quando è stato creato. Non sono una di quelle persone che ascoltano di continuo ciò che hanno registrato, prediligo andare avanti. Quando l’ingegnere del suono di Consouling Sound mi ha inviato la versione rimasterizzata ho sentito un po’ l’obbligo di farlo perché, beh, dovevo approvarla. Mi ha impressionato, perché ha svolto un ottimo lavoro di produzione, rendendo perfettamente l’idea di me come cantante. A risentirlo dopo tutto questo tempo ho pensato che fosse piuttosto avanti coi tempi, considerato quand’è stato concepito. Interpretare The Man I Love come feci nel 1986, anche con una sorta di piglio ironico, il volerla riportare in qualche modo alle origini di ciò che sarebbe dovuto essere è stata una sorta di dichiarazione. Oggi come oggi è praticamente tutto legato alla questione LGBTQ+, mentre all’epoca, beh, non così tanto. Lo trovo un album molto femminile, un lavoro che esplora le sensazioni di una donna e le sue emozioni. Anche in canzoni come Blood On Your Hands, nonostante il suo contenuto che potrei definire spaventoso. È un disco molto cinematico, dato che affronta storie diverse che vengono proiettate come immagini nella mente di chi lo ascolta. Molto intimo e cerebrale. Potrei dirti che è oggi questo il mio approccio al disco.

A mio avviso “skin blood women roses” si ambienta alla perfezione nel 2022. L’ho riascoltato mentre preparavo l’intervista e ho pensato che fosse un album già maturo. Spesso i primi lavori suonano molto sbilanciati, ci sono errori dettati dall’inesperienza. Il vostro non sembra affatto un debutto.

È davvero grandioso sentirtelo dire. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è che avevamo un’intera sezione di archi (persone che avevano suonato per Marc Almond), una cosa che oggi è piuttosto facile da ottenere, ma non allora. Mi sembra ancora magnifico. Comunque spero che vedrai il nuovo video di Red Rose che stiamo per pubblicare e di cui ti parlavo. La protagonista è questa ragazza che volteggia nell’aria come una trapezista. Ho dovuto accorciare di un poco il brano ma questo non ha affatto scalfito l’effetto originale, anzi. Tutto il corpo di ballo è stato favoloso, ma lei, Marilyn Chen, è incredibile, un vero talento.

Non vedo l’ora di vederlo. E di stringere tra le mani la mia versione “Dracula” dell’LP.

Guarda, la vorrei anche io [ride, ndr].

Ti ringrazio per il tuo tempo. È davvero un onore averti sulle pagine di ImpattoSonoro ed è stata una bellissima intervista.

Grazie a te, mi è davvero piaciuto parlarti!

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