Impatto Sonoro
Menu

Retrospettive

Keep her name close and sacred: una retrospettiva sui Low

(c) Nathan Keay

Lo scioglimento di un gruppo amato si può vivere come la fine di una relazione: può risultare uno shock, quando avviene per uno strappo improvviso, oppure telefonato e quasi atteso, quando il rapporto è ormai logoro e si sente di non poter chiedere nulla di più al partner. Ma quando c’è di mezzo la morte di un componente imprescindibile esiste solo la via traumatica: leggendo la notizia della dipartita di Mimi Parker, per quanto preventivabile per la lunga degenza, ci ritroviamo a elaborare un lutto, certamente meno straziante di ciò che tocca ad Alan Sparhawk e ai loro figli, ma pur sempre un vuoto che si viene a creare. 

Quel vuoto lo colmiamo celebrando i cari che sono venuti a mancare. Con funerali, veglie e ricordi più informali. I Low coprono trent’anni dell’esistenza collettiva e all’incirca la metà di quella del sottoscritto,  nei quali la loro musica è stata abbastanza presente da legarsi alle fasi salienti della mia vita. Cercherò di mettere per iscritto quanto più di vivido mi sia rimasto, sperando di accogliere in questo abbraccio collettivo chi ancora non ha assaporato nulla o quasi dei loro 13 bellissimi dischi.

I COULD LIVE IN HOPE (1993 – 1994)

Da me gli anni ’90  sono cominciati nel maggio 2009. Sono in viaggio nel Centro Italia, a seguire le tappe di un insolito Giro d’Italia che si decide sugli Appennini e si conclude a Roma. Prima di partire ho preparato un CD da ascoltare in viaggio col lettore, che contiene unicamente musica prodotta dal 1990 al 1999. Così scopro che non è esistito solo il grunge ed il britpop, ma anche i Ride, i Red House Painters, gli Slowdive ed un’infinità di altre band e sottogeneri dei quali neanche immaginavo l’esistenza. Al ritorno da Roma, in contrasto al caos di una carrozza Trenitalia assaltata da ogni sorta di umanità la domenica sera, mi ritrovo immerso nella eco di un salone enorme, tra un basso sornione, una chitarra cupa ed elementare e l’incedere regolare delle spazzole. Era Words. che non è neanche una canzone d’amore, eppure da quel giorno decisi che se mai mi fossi sposato, sarebbe stato l’unico lento che avrei desiderato ballare.

PURO SLOWCORE (1995 – 1999) 

Saltiamo all’autunno 2010. Sono alle prese con gli stimoli dell’esperienza da fuorisede a Padova, eccitato dall’idea che ci siano ragazze che possano condividere simili gusti musicali. Una compagna di corso ha l’hard disk pieno zeppo di cose interessanti, ma vedere tra le cartelle la discografia completa dei Low mi sorprende ulteriormente. Non le ho mai chiesto se le piacessero davvero o se fosse solo uno dei tanti download a strascico che all’epoca si facevano senza un perché. Fatto sta che se sono qui adesso a scrivere di loro, è grazie a quella fortunata condivisione. Non pensavo che i Low avessero prodotto così tanta musica: l’album d’esordio e i primi tre dischi successivi, pur nelle loro lievi differenze coerenti al concetto originario di slowcore, mi accompagneranno nelle notti e negli inverni dei primi anni veneti. Ricordo che attendevo un treno che non arrivava mai, quando partì per la prima volta Do You Know How To Waltz?, estratto del terzo disco “The Curtain Hits the Cast” (1996). “Ma cos è ‘sta roba? Ma quando finisce? Quando arriva il treno?” pensavo battendo i denti.  Questa roba era drone, “not drones” come anticipò Alan in una delle più celebri esecuzioni del brano che, contro ogni logica, è stato fino ai tempi recenti un loro grande cavallo di battaglia durante i live, una rumorosa riscossa dai momenti nei quali durante i festival venivano ‘sovrastati’ dai volumi dei musicisti più caciaroni sui palchi vicini.

APERTURE POP (2000 – 2004)

“Steve, smarmella tutto!” Dev’essere andata più o meno così. Albini aveva già prodotto “Secret Name (1999), ma è in “Things We Lost In The Fire (2001) che presta i suoi servigi all’irreversibile cambiamento. Nella musica dei Low il violoncello apre la strada a strumenti diversi da quelli dell’(anti)power trio, ed i brani diventano molto più pieni, come la vita di Mimi e Alan con l’ingresso dei figli Hollis e Cyrus. È un periodo di grande visibilità: il pubblico generalista li conosce per una cover di Little Drummer Boy in uno spot pubblicitario, contenuta nell’azzeccato “Christmas EP” (1999),  cominciano a indovinare pezzi orecchiabili (Sunflower) e approdano in Europa per aprire ai Radiohead. C’è tutto il necessario per abbandonare i lavori saltuari e vivere solamente di musica. Low e famiglia sono praticamente la stessa cosa. Hollis farà la sua prima apparizione pubblica nel video dell’ultra-distorta Canada, che apre a “Trust” (2002), uno dei dischi più plurali di tutta la loro carriera. Di tutt’altro tenore rispetto a Canada sono l’apertura (That’s how you sing) Amazing Grace e la chiusura  Point Of Disgust. Questo pezzo in particolare lo lego al forte senso di distacco che provavo verso il Sud quando tornavo giù solo per pochi giorni ed ero sicuro che la mia vita sarebbe stata altrove, forse fuori dall’Italia, magari chissà…proprio in Canada. 

GUERRA, SINTESI, DEPRESSIONE (2005 – 2010)

Dopo ogni visione del video di Breaker mi chiedo cosa abbia portato Alan a prodursi in una disgustosa performance sfondandosi di torta al cioccolato fin quasi a vomitare. Stona tremendamente con l’immagine del gruppo minimalista e spirituale che avevo ascoltato agli inizi, che con “The Great Destroyer (2005) aveva scelto di legarsi alla prestigiosa Sub Pop senza più cambiare etichetta. Anche la musica ha un approccio dissonante rispetto agli esordi, con la chitarra e la batteria più ruggenti oppure sempre più spesso sostituite da suoni sintetici. “Drums And Guns” (2007) è un disco influenzato dalle guerre di occupazione in Afghanistan ed Iraq, ma anche dalle battaglie di Alan coi demoni interiori, che lo costringono ad annullare una tournée nel 2005. A segnare questo periodo anche l’uscita dal gruppo di Zak Sally, dei cinque bassisti che si sono avvicendati nel tempo forse il più importante per il legame musicale col frontman che durava da quasi vent’anni. 

NOTHING BUT HEART (2011 – 2017)

Dopo i turbamenti, la rinascita. “C’mon” (2011) è il primo disco del quale vivo l’uscita, ad aprile. Non ho ancora assimilato tutta la produzione precedente, per quello ci vorranno anni, intanto quest’ultimo si presenta molto bene tramite la trascinante Try To Sleep e il suo video cinematografico e sognante. Arriva dopo la pausa più lunga di sempre, quattro anni, segnando l’inizio di una felice seconda era. I Low si esprimono in una nuova veste sentimentale e vitale più che mai, senza dimenticare le origini (Nightingale). La vetta creativa del disco è rappresentata da Nothing But Heart, un crescendo di 8 minuti che tracima in tutto il meglio che la loro musica sa costruire. Ogni tanto anche i bambini fanno capolino con un coretto o un intervento scanzonato: l’universo è tornato in armonia, e la musica ne risente positivamente. Il successivo “The Invisible Way” (2013) vive dell’onda lunga di questa ritrovata armonia, un disco che scorre con così tanta facilità che basta distrarsi un po’, come spesso capitava mentre lo ascoltavo in un periodo di stages e pendolarismo, per rendersi conto di essere già arrivati a To Your Knees, l’ultima traccia. Su “Ones & Sixties” (2015)  li avevo un po’ persi di vista: ai tempi cercavo altri generi. È un disco che riscoprirò più tardi, complice il loro live a Padova nel 2019.

L’ULTIMA STERZATA (2018 – 2022)

Come si diceva, per qualche anno avevo perso di vista i Low. Furono loro a venire da me: il 5 aprile 2019 si esibirono all’Hall di Padova, un’occasione imperdibile. Non avevo ancora ascoltato “Double Negative” (2019), che fu anche abbastanza messo in secondo piano nel live, preferendo più una summa della loro carriera, ma il pretesto fu sufficiente per prenderlo in mano e rendersi conto di essere di fronte all’ennesima sorpresa. Siamo ormai nell’epoca di Spotify e i dischi si ascoltano dall’ufficio; uno dei colleghi ne capisce (molto più di me) ed usualmente è più severo di Scaruffi, ma non ha dubbi sulla qualità del long playing. Anche stavolta sono riusciti a spiazzarci con un album gelido e oscuro, slowcore fatto non più con le chitarre ma con campionamenti e sintetizzatori. “HEY WHAT” (2021) è il suo fratello caciarone argutamente menzionato in maiuscolo, caratterizzato da distorsioni esagerate e stridule che segnano il tempo al posto delle spazzole di Mimi.

LOVE IS THE MOST IMPORTANT THING 

Non ho parlato finora dell’unica costante musicale in questi trent’anni: l’intreccio delle loro voci. Quella di Alan, trascinata e tremolante, che viene accolta e protetta dal timbro caldo ed etereo di Mimi. È questo il vero pattern che permette di riconoscere un pezzo dei Low, più dei volumi ridotti, delle spazzole e degli effetti. È vero, l’amore non dura per sempre: ma può sempre durare tutta la vita. Se cerchiamo una prova di quanto la loro storia sia stata speciale, la possiamo trovare nella discografia che lasceranno ai posteri. Pochi, forse nessun gruppo o artista moderno è riuscito a dare una tale continuità creativa al suo progetto, 13 dischi tutti quantomeno ispirati se non eccellenti, al limite sofferti o spiazzanti. Ed in ognuno di quei dischi, quell’intreccio di voci, su qualunque sottofondo si appoggiasse, diventava intreccio di anime.

She passed away last night, surrounded by family and love, including yours. Keep her name close and sacred. Share this moment with someone who needs you. Love is indeed the most important thing.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati