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Interviste

Il Paradiso dell’elettronica come scenario per il teatro estemporaneo: intervista a Bruno Dorella

Foto di Beatrice Gjergji

Paradiso” è il secondo album solista di Bruno Dorella, prodotto per 13 / Silentes. Dorella, conosciuto anche con gli pseudonimi di Jack Cannon e Ventolin Orchestra, è stato fondatore di diversi gruppi musicali come OvO, Ronin e Bachi da pietra. Ex membro dei Wolfango, è produttore discografico con l’etichetta Bar la Muerte. “Paradiso” nasce come musica per la coreografia del nuovo spettacolo del gruppo nanou, compagnia di danza contemporanea e arti performative fondata da Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura. Ed è inoltre il primo album di musica elettronica realizzato da Dorella.

Dopo la densa ouverture di Mercurio, siamo catapultati sul pianeta di Venere. Qui residui sonori industrial intaccano il senso di immaginifico, conferendoci il giusto gusto di smarrimento atto al sensato proseguimento del viaggio. Saturno è il primo singolo estratto che racchiude in tre minuti gli elementi principali di questo lavoro. Osserviamo ritmi paralleli e sovrapposti, sinuosi e apparentemente sfasati. Il viaggio in Paradiso è composto da tredici brani e si conclude con la title track, una forma-canzone “aliena”che vede ospita Francesca Amati dei Comaneci, (presente alla voce anche in Stelle Fisse). Prima ancora che spettacolo, “Paradiso” è un luogo di confronto. Nella coreografia teatrale vi è l’avvicendarsi di azioni e immagini che si susseguono senza una narrazione lineare. Le visioni e i personaggi ispirati dai canti dell’opera di Dante si muovono nello spazio accogliendo gli spettatori. Il palcoscenico è pensato come luogo attivo in cui immergersi, creando così una comunità sociale che può accedere al Cielo attraverso una sorta di mostra museale. Qui l’ospite viene immerso in una dimensione scenica in cui l’interazione tra la luce e le superfici specchianti, e la prossimità con i corpi, genera sensazioni di perdita di contatto con il terreno. Un luogo “altro” pensato per lo spettatore e capace di restituire un’idea di aggregazione culturale.

Ciao Bruno. Ci piacerebbe iniziare questa intervista con una narrazione emotiva dei tuoi esordi. I tuoi primi passi nel mondo della musica sono legati allo studio come autodidatta della chitarra e ad un consecutivo abbandono universitario. Vuoi raccontarci di quegli anni? Come hai vissuto il rapporto con la Musica in quel periodo?

Buffo inizio, nessuno mi aveva mai chiesto di risalire così agli albori. Di solito le interviste partono con “come nasce questo nuovo album”? Ci sono stati vari inizi. Uno è stato nel 1985, quando a 12 anni mio cugino mi regala una chitarra classica e una cassetta degli U2. Capisco immediatamente che quella roba sarebbe stata la mia vita. Il mio primo concerto amatoriale è del 1988, a 15 anni. Nel 1992, a 19 anni, in seguito al naufragio di un gruppo di belle speranze, smetto di suonare. Il ragionamento è che, se tutti i miei idoli a quell’età avevano già fatto il primo, storico album, per me è finita, sono vecchio e appendo la chitarra al chiodo. Rientro dalla porta di servizio nel 1996, a 23 anni, quando Oreste Zurlo di Fridge Records mi dice che un gruppo che mi piace di brutto, i Wolfango, cercano un batterista, meglio se non troppo bravo. Perfetto, visto che non ho mai suonato la batteria ma mi ci sento portato. Inizio a suonare con loro e succede il miracolo, nel 1997 esce il mio primo album, “Wolfango“. Mollo l’Università, che comunque mi stava deludendo molto, e tutto sembra decollare. Ma nel 1998, con una mossa figlia della sfrontatezza della gioventù, mollo anche il gruppo. Faccio il servizio civile, mi chiedono di fermarmi lì a lavorare. Chiedo consiglio al compianto Franco Bolelli, che da tempo mi aiutava nei miei primi passi, che mi risponde categoricamente: “tu devi suonare”. E dunque la decisione è presa. Nel 2000 nascono gli OvO, e da lì non ci si ferma più.

Cosa ti rimane oggi di quegli anni? Pensi di aver cambiato approccio o conservi ancora quel tipo di atteggiamento?

Io sono io e per molti aspetti sono rimasto lo stesso. Il profilo basso, un ego di dimensioni non spropositate, l’attitudine easy aumentata dal lungo contatto col mondo anarcopunk. Poi l’ingenuità è diminuita e l’esperienza è aumentata, con tutto ciò che di buono e meno buono questo comporta. Sono figlio di una friulana, di famiglia contadina, e un ragioniere milanese dal carattere introverso e integerrimo. Ho un’attitudine operaia, detesto gli artisti egomaniaci e capricciosi. Da questo punto di vista, ho il grande esempio di mia sorella Oriella, etoile della Scala e per un paio d’anni anche star televisiva, decenni di duro lavoro e poche pippe.

Hai assunto la forma dell’acqua attraverso le diverse sfaccettature dell’alternative rock italiano. Come pensi che si affacci, oggi, questo genere musicale sulla scena discografica italiana?

La forma dell’acqua. Mi piace. Questa te la rubo. Mi sento sempre meno legato al rock e sempre più legato alla musica e basta. Difficile tenere l’acqua in un cassetto. Di conseguenza mi rendo sempre meno conto di cosa significhi alternative rock. Mi pare una definizione puramente estetica.

Paradiso” è il tuo ultimo lavoro da solista chenasce come musica per la coreografia del nuovo spettacolo di gruppo nanou. Una collaborazione che dura da tempo e che ha coinvolto anche le band di cui hai fatto parte, Ronin e OvO. Qual è il principio musicale che vi unisce?

La prima volta che sono entrato in un’installazione dei Nanou ci sono rimasto dentro tre ore. Ed è poi sempre stato così. Loro creano mondi, non semplici spettacoli di danza. Le loro installazioni (le chiamo così, non so nemmeno se sia corretto) non hanno inizio e non hanno fine, si entra, si esce e ci si muove al loro interno liberamente. Il cofondatore del gruppo Roberto Rettura, che non ha mai amato essere chiamato musicista, faceva sempre queste musiche straordinarie, molto lynchiane ma non solo, c’era sempre qualcosa di inaspettato, che poi ho in parte capito lavorando con loro. Ho lavorato con e senza di lui, da solo, con OvO, con Ronin, e ogni volta con i Nanou è una magia che si rinnova, un’unione e una chiarezza d’intenti che ho trovato raramente altrove.

Paradiso” è inoltre il tuo primo album di musica elettronica. Come è stato possibile coniugare tale stile ad un lavoro progettato per una performance teatrale?

Gran parte dei lavori per teatro oggi sono basati sulla musica elettronica. In questo caso poi si tratta di danza contemporanea, quindi l’elettronica si presta notevolmente alla materia.

Questo è il tuo secondo prodotto da solista dopo “Concerto per chitarra solitaria”, pubblicato nel 2019 da Bronson Recordings. Ti sei sentito artisticamente più libero rispetto alle tue usuali esperienze di musica ensemble?

Da un lato sì, perché sono da solo e devo rendere conto solo a me stesso, dall’altro si tratta in entrambi i casi di lavori su commissione. Se nel caso del Concerto Per Chitarra Solitaria l’unico paletto era la durata (circa mezz’ora-quaranta minuti), in “Paradiso” c’erano di mezzo molte altre esigenze. Innanzitutto, quelle dei corpi e della coreografia, di cui parlerò più nel dettaglio dopo, e poi il gusto del coreografo Marco Valerio Amico, che conosce bene la musica contemporanea e ha esigenze ben precise. Questo tipo di mediazione tra il compositore/musicista e un committente competente e con le idee chiare mi piace davvero moltissimo, mi porta a non sedermi mai sugli allori, mi obbliga a rimanere vigile su ogni scelta, mi tiene vivo. La sfida, quando è tra persone che collaborano in questo modo, è una cosa magnifica.

Un’ultima domanda. Che funzione assume il ruolo della danza all’interno di “Paradiso”?

Si potrebbe ribaltare la domanda: che funzione assume Paradiso all’interno della danza? Gran parte delle scelte che si ascoltano su questo disco sono frutto di esigenze coreografiche e del rapporto tra la musica e i corpi. Molte volte, soprattutto all’inizio del lavoro, proponevo idee musicali assolutamente coerenti e ineccepibili, che però, una volta messe alla prova sui corpi di chi danzava, non funzionavano. E lo si capiva subito. La cosa fondamentale è stata, attraverso varie residenze di giorni o settimane, poter provare la musica direttamente sui corpi di chi danzava. Un processo bellissimo. Provavo le idee sui corpi degli studenti e delle studentesse della Paolo Grassi che hanno partecipato a una parte dello spettacolo, sulle danzatrici Marina Bertoni e Carolina Amoretti, ma la cartina di tornasole era Rhuena Bracci, cofondatrice del grupopo nanou, danzatrice e coautrice di Paradiso. Se un’idea funzionava su di lei, si poteva fare, se non funzionava, andava cambiata., Da qui è venuta l’esigenza, che poi è la cosa che più mi piace di Paradiso, di sovrapporre diversi strati ritmici, in modo che chi danzava potesse sceglierne uno e seguirlo, creando una sorta di finto scarto ritmico. I diversi strati sono infatti del tutto coerenti, anche se bisogna prestare molta attenzione per percepirlo. Oppure non prestarne alcuna, e lasciare che la musica fluisca, senza farsi domande. Tutto a quel punto risulterà chiaro, in modo naturale.

Foto di Daniele Casadio

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