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Back In Time

Seattle e tastiere per una rivisitazione dell’indie rock: “…Burn, Piano Island, Burn” dei Blood Brothers compie 20 anni

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Quando vado a casa dei miei, magari quando sono via d’estate, in vacanza, per bagnare le piante o recuperare la posta e rimettere al suo posto lo zerbino, lasciato sul pianerottolo arrotolato su se stesso dall’impresa delle pulizie condominiali, me li immagino tranquilli, in qualche posto al fresco. A cucinare su fornellini non loro, magari con qualche difficoltà. Alle cose che hanno lasciato in città ci penso io. La casa dove sono cresciuto e da dove me ne sono andato è sempre lì. Buia, col rumore del frigorifero che sovrasta qualsiasi movimento faccia. Non si sentono nemmeno le macchine che manovrano in cortile o gli altri condòmini che vivono la loro vita normale negli altri appartamenti del palazzo, fuggendo dalle loro incombenze. L’ultima volta che ci ho dormito è stato il giorno prima di sposarmi.

Nell’estate del 2003 lavoravo in una fabbrica per potermi pagare le vacanze. Che non feci, comunque. I miei, come ogni anno, se n’erano andati al mare ed avrei passato tre settimane in casa da solo, senza nemmeno un Europeo o un Mondiale di calcio. Uscivo la mattina, rientravo la sera, mangiavo poco, sentivo qualche amico, uscivo tardi e tornavo tardi, alle volte quando già i camion della raccolta differenziata entravano rumorosamente nei cortili. Sentivo qualche amico che versava nella mia stessa situazione, perché l’importante era non chiuderci in noi stessi.

Tra questi c’era chi mi fece conoscere, quell’estate, i Blood Brothers. Attingevo un po’ qua e un po’ là, in ambito musicale. Dipendeva da chi sentivo, da dove andavo. Quella fu un’estate strana, in cui ascoltai praticamente solo quel genere, però. Screamo, emoviolence, post-punk. Poca roba italiana, molti gruppi che erano solo al primo album, nuovi, destinati ad essere dimenticati entro le prime avvisaglie d’inverno. I Blood Brothers, però, erano già al terzo disco, e quell’estate sarebbero stati anche in Italia per presentarlo, in occasione del loro tour con i Pretty Girls Make Graves, amici di Seattle sulla cresta dell’onda proprio nello stesso periodo. 

Il disco che avevano appena pubblicato si intitolava “…Burn Piano Island, Burn”.  Il venti agosto suonavano vicino a casa nostra e decidemmo di andare. Era l’estate del 2003, era da poco passata l’euforia dei viaggi estivi e di Ferragosto, qualcuno era ancora via, qualcuno si era già chiuso nelle proprie confortevoli vettovaglie in attesa di settembre. Il ritrovo era appena prima di cena sotto casa di chi aveva la macchina, l’unico tra di noi. Uscii di casa che il sole illuminava già per metà i palazzi del cortile, infrangendosi contro le veneziane calate degli ultimi piani. Chi era ancora in vacanza non ci pensava, a casa sua e al sole. Chi era lì, invece, doveva farci i conti per forza. Avevo nell’Eastpak blu una bottiglia di vino bianco caldo, che non si sa mai. Le sigarette e un antivento azzurrino di quando giocavo a calcio. Camminando verso il luogo dell’appuntamento, digrignavo i denti, seguendo il testo di Every Breath Is A Bomb:

Can you crease the wrinkles back into the cracked and open brain? So doctor won’t you pull the fucking plug? Won’t you cut the cord? Because you can’t put the life back into this hospital ward. 

Sempre di violenza, sempre di malessere si trattava, in fondo. Nonostante le vacanze, nonostante la vicinanza con altre persone che, come me, stavano per vederli dal vivo.  Arrivammo a Brescia e indossai l’antivento sebbene, come già spiegato, fossimo in agosto, appena dopo lo scoglio del quindici. Guardai verso nord, per vedere se si potessero scorgere le Alpi, da dove tirava l’aria fredda, ma era già buio. Parcheggiammo davanti a una sala giochi, gettammo le birre vuote in un cassonetto, con le mani in tasca ci dirigemmo verso l’area del concerto. Presi la bottiglia di vino bianco, calda, in mano, estraendola dallo zaino, e provai sollievo, la aprii e iniziai a berla sino a che non arrivammo ai cancelli dell’area.

Non erano tutti lì per il nostro stesso motivo, anzi. L’evento era una quindici giorni di concerti, che spaziavano dall’indie al reggae e al punk e dal jazz ai Blood Brothers. Un po’ di chiacchere, gli abbracci con amici capitati lì per caso dal Nord Europa che non vedevo da una vita, le lamentele per il polverone che si sarebbe alzato dalle prime file sotto al palco, il giro al merchandising troppo costoso e allora aspettiamo a fine concerto: tutto era sempre come prima, non vi erano elementi per i quali ci si potesse rattristare, e di lì a poco sarebbero saliti sul palco i fratelli di sangue, che stavano portando in giro il loro primo disco su major dopo aver abbandonato la Three One G di Justin Pearson dei Locust.

Dopo la buona mezz’ora dei Pretty Girls Make Graves, retaggio Smiths, eccoli, i due cantanti. I capelli biondi, le frange, quel modo di vestire che non si differenziava poi così tanto, alla fine, dai gruppi che schifavo. Quella era un’orchestra. Le prime cinque canzoni del nuovo album erano imponenti, le conoscevamo tutti, ci abbiamo dato dentro, eravamo esagitati. Il polverone non si alzò e tornò il caldo estivo non appena presero la prima pausa. Solo così “…Burn, Piano Island, Burn” divenne davvero un album importante.

Ancora oggi digrigno spesso, tra i denti, le parole di Every Breath Is A Bomb. Perché tra tutti gli album ascoltati in quegli anni, “…Burn Piano Island, Burn è certamente quello che ha definito più nettamente cosa significasse il termine “alternativo”. In Italia e in Europa, sicuramente, io e i miei coetanei ascoltavamo roba più chiassosa e diretta, rispetto a quella, ma ce ne siamo fatti una ragione: piacevano da impazzire. Fu un disco capace di prendere le distanze persino dai primi lavori dei Blood Brothers stessi, a suon di singoli e volti imbronciati, di tastiere e frenesie made in Seattle, prendendo finalmente una netta posizione di distacco verso grunge e psichedelia.

Nel presente, quando vado a casa dei miei e loro non ci sono, perché, come vent’anni fa, vanno in vacanza e mi chiedono di dare un’occhiata alle piante e alla posta, rimetto sempre lo zerbino al suo posto, srotolandolo davanti alla porta blindata. La apro, sento il fresco tipico di una casa rimasta chiusa mentre fuori impazza il calore estivo, ed è come se tutta la tristezza che non sono riuscito a accumulare nelle estati di vent’anni fa si facesse sentire tutta, di colpo. Tra quei cardini e quel pianerottolo.  

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