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Il rituale che si snoda sulla linea del tempo di “Alla ricerca dell’oblio sonoro”

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Ci sono libri che necessitano di un tempo tutto loro per essere letti, un altro per essere assorbiti e un altro ancora per essere poi descritti da chi, come noi, lo fa per il semplice piacere di non tenerci per noi certe cose che andrebbero inserite dritte filate in certi ambienti anche universitari, ma pure no. Non tutto deve essere accademico.

Ho comprato “Alla ricerca dell’oblio sonoro” durante una pausa tra un concerto e l’altro dell’edizione 2022 del Jazz Is Dead, festival torinese che racchiude in sé molto di ciò che Harry Sword racchiude in queste 448 pagine, dense come magma nero o traslucide manco fossero carta velina percossa dal vento. In quei giorni di festival avevo assistito al concerto di Kali Malone accompagnata da Stephen O’Malley e Lucy Railton, una nota sostenuta per una quantità di minuti che non sono riuscito a concepire. Troppo anche per me, troppo per il posto in cui è stata suonata. Troppo e basta. A ripensarci ora, però, dopo aver concluso il peana che la penna di The Quietus dedica al drone acquista tutto un senso. Tutto torna a quel punto in ripetizione infinita, spesso punitivo, come ho avuto modo di scoprire dieci anni or sono, in un posto bene o male minuscolo di Milano, con gli Swans a sfibrare un pubblico in piedi con tre ore di bordate ripetitive e malattia palpabile, introdotti da Xiu Xiu che quella sera erano il solo Jamie Stewart, con suoni mandati in loop mentre lui, in alcuni momenti, stava seduto a bordo palco a occhi chiusi. La musica che suona da sola, il pubblico che la suona dentro di sé, senza nessuno ad addomesticarla. Un concetto che Sword qui finisce per recuperare e approfondire.

Mi sono messo a scrivere questa recensione (se così la possiamo definire) appena rientrato in casa dopo un giro al sole marzolino, un sole bastardo e marcio, con nelle cuffie “Gymnastics” di Regis, produttore techno che ho scoperto proprio in queste pagine, scoprendo di persona come quanto detto da Sword sia vero: spesso persi nel drone cominciamo a sentire cose che non ci sono, voci fantasma. È passato quasi un anno da quando l’ho acquistato (copia numerata 968 di 999) e ci ho messo un bel po’ ad aprirlo e finirlo. L’ho dosato. Ho voluto sperimentare la lentezza, anche “recensiva”, lasciando perdere per una volta la velocità cui noi scribacchini digitali siamo legati per un motivo o un altro. “Alla ricerca dell’oblio sonoro” è destinato, a mio modesto parere, a diventare uno di quei testi senza età che finiranno per essere presi ad esempio per scrivere e ascoltare tanti di quei generi da perderne il conto. Dunque, se l’avete già letto bene, se avete già letto qualcuno che ne ha parlato poco male, questa è stata la mia scelta.

Prima ancora di cominciare a immergersi nel dedalo swordiano c’è la nota del traduttore Luca Fusari che è, a ben vedere, la migliore nota di un traduttore che io abbia mai incontrato sul mio cammino di divoratore di cellulosa e derivati. Fusari si sofferma sulla parola drone e derivati e riporta che “Non sono più i tempi in cui, alle prese con ‘Krautrocksampler’ di Julian Cope, un ostinato traduttore poteva considerare accettabile l’idea snob di non rendere mai drone con ‘drone’, a costo di farsi sanguinare le parafrasi”. Vera delizia.

Poi arriva Sword che trova il filo conduttore, l’epifania dronica, dopo tre giorni di Roadburn Festival, sferzato da Bongripper, Goblin, Eyehategod e tutto lo stuolo di artisti dediti all’astrazione terrena in cartellone. Il viaggio dell’autore parte da lontano, lontanissimo, da siti archeologici che vanno da Malta e giungono in Terra d’Albione, passando per la storia di certa musica tribale africana cui tanti “rocker” o più semplicemente marci nell’animo si sono avvicinati negli sballati Sessanta. Camere rituali che risuonano nello scorrere finito e potenzialmente senza fine del tempo e nei corpi di chi le ha ascoltate o ascolterà. Il libro si srotola come un drone, bisogna farci caso: le ripetizioni sono tante, il flusso di parole si snoda in flussi e ondate, sale di intensità e si infrange, proprio come il mare. I rimandi a generi e gruppi sono una andirivieni continuo. Cose che compaiono in un punto riappariranno altrove.

I Velvet Underground e Cale che si intrecciano con La Monte Young (ovvio), la compagine industriale ad avanguardie europee di ogni sorta. Interviste e stralci, da Brian Eno a The Bug, passaggi di alienazione e comunione narrati in prima persona da membri di Faust, Ash Ra Tempel e Hawkwind, base d’appoggio Sunn O))) che estende le sue spire oscure nel sottobosco drone sospinto da dietro da Dale Crover e i Melvins. Si sofferma spesso su quelle che sono le sue fisse, tipo Jus Osborn/Electric Wizard e altrove la techno (proprio Regis è interpellato, ma non è l’unico), o “l’hardcore a rovescio” che pianta le basi negli Stooges e si esprime completamente nel sabbathiano “My War” dei Black Flag (o i Ramones, che per assurdo ci sono e giocano un ruolo fondamentale), un Rollins che parla a briglia sciolta attraverso la sua sterminata conoscenza musicale fino ad avvilupparsi alle idee chitarristiche nate da Rhys Chatman e Glenn Branca ed espulse passando dalle corde (chitarristiche e vocali) di Lee Ranaldo, affascinato da no wave e cultura alta se non altissima, gettata nelle strade descritte dai Suicide e infine nei mondi rurali e di cemento delineati da Dylan Carlson e i suoi Earth. Dischi che vengono descritti a metà strada tra minuziosità certosina e fantasticherie e aggettivi a profusione, come dicevo, ripetuti spesso all’eccesso, ma senza dare noia, spianando la strada all’ipnagogico, il fantastico, l’oscuro e il luminoso.

Scoprire che la linea (dis)continua del drone non si interrompe mai, unendo i puntini di artisti che sembrano non guardarsi nemmeno di striscio ma solo se li prendiamo come riferimento superficiale, perché Sword ci spinge ad affondare nelle radici profonde del rumore rituale, fino a raggiungere la consapevolezza che già sapevamo tutto, solo che non avevamo una mappa da seguire. Ora c’è. Conviene seguirla, stringendola tra le mani e tenendola sempre a mente quando ascoltiamo qualcosa o ne scriviamo. O anche no. Anche solo quando ci immergiamo nel suono distante di un’autostrada, sia essa la M25 della rave culture (o di Lee Gamble) o quelle che troviamo appena dietro l’angolo qui da noi.

Autore: Harry Sword
Uscita: 17/03/2022
Editore: Atlantide Edizioni
Traduttore: Luca Fusari
Pagine: 448
Prezzo: € 30

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