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Fuori dallo schermo nessuna pietà: quando gli attori fanno i musicisti

Passi un sacco di tempo alla ricerca di un pretesto, l’aggancio perfetto che ti serve per scrivere un articolo, “portarla a casa”, come si suol dire e niente. Un cazzo di niente. Poi, una sera, mentre leggi un libro sui Righeira e ti prendi una pausa lo vedi. È lì, a galleggiare nell’etere. Una foto in bianco e nero su Instagram, sulla destra Keanu Reeves, ormai dedito al look “John Wick”, che fa tanto rockstar, come il suo personaggio nel videogame “Cyberpunk 2077”, Johnny Silverhand, leader dei Samurai. In questo caso non è l’attore a sbraitare nel microfono, a farlo per lui è Dennis Lyxzen e i suoi Refused fanno il resto sotto mentite spoglie. In effetti non credo avrei dovuto attendere l’annuncio del ritorno dei Dogstar, band che vede il Neo di “Matrix” alle quattro corde, in un turbinio di rock colloso di terz’ordine…e invece no, è perfetto. Loro incideranno un nuovo album e io scriverò un articolo.

Il punto ormai sarà pur chiaro anche a voi: attori che fanno i musicisti. Al rovescio i musicisti che fanno gli attori spesso hanno dato le medesime vibes, ossia uno sterminio della settima arte sotto gli occhi di tutti con rare eccezioni tipo Tom Waits, John Lurie, finanche lo Sting di “Dune”. Viene da chiedersi: “Perché lo fate?”. A questa domanda senza reale risposta segue sempre, nella mia mente malata, il video che Gary Oldman, in combutta con Jimmy Kimmel, ha girato per manifestare tutta la sua acrimonia nei confronti degli giocatori di basket diventati attori. Il buon Dracula, dapprima calmo, sciorina i motivi tali per cui è un così bravo attore, anzi, il motivo: ha studiato per farlo. Forse che lui si dà al basket perché famoso? Certo che no. E allora, cari giocatori di basket “Fuori dal cazzo!” Sbrocca. Fa molto ridere e ha dato a me il gancio. Perché gli attori dovrebbero improvvisarsi musicisti anche quando, pure evidentemente, non è pane loro?

Certo, non è necessario studiare per incidere dischi, altrimenti ciao ciao punk ’77, post-punk e via dicendo, a volte basta e avanza il proprio estro, le idee, lo studio sì, ma non accademico, che invece spesso annienta la vena artistica. Da anni ormai ho la mia piccola fissa: scovare e ascoltare fino alla nausea (che spesso arriva dopo i primi tre secondi del primo brano in scaletta) gli album che gli attori sono convinti di poter e dover registrare giusto perché, a dirla con Gary, possono farlo. Tutti disastri come le star NBA a Hollywood? Non direi. A volte il bilancio è talmente positivo da non crederci, seriamente, ci sono dischi pazzeschi composti con e da gente micidiale, altre volte, invece, a essere micidiale è solo il bisogno di Imodium, cosa che non rende del tutto negativa comunque l’esperienza.

Dunque ecco, dopo questa lunga introduzione (leggi: pretesto), la mia ricerca nel mondo del cinema che straborda negli studi di registrazione e le sue non sempre nefande conseguenze.

Dogstar – Our Little Visionary

Cominciamo proprio da Reeves. I suoi Dogstar nascono negli anni Novanta, nel ’91 il bassista compare già in una pellicola diventata culto, ovvero “Point Break”, eppure il richiamo del rock è forte e quindi eccolo lì al basso. “Our Little Visionary” del ’96, preceduto dall’EP “Quattro formaggi” (Cristo santo…), viene licenziato dalla Zoo Entertainment. Per darvi un’idea l’etichetta lo stesso anno pubblicherà “Aenima” dei Tool. Fine. Il power-trio setta le coordinate: college rock brutto da paura. Un film horror di riff appiccicosi, voci melense (il tentativo post-grunge all’acqua di rose del cantante Bret Domrose di darsi un tono fa tenerezza), pallidi tentativi di fare del buon punk rock/power pop, ballate elettriche provviste di tutto l’armamentario Goo Goo Dolls però peggio è poco oltre la delizia totale. Produce Ed Stasium, già al lavoro con Living Colour, Ramones, Talking Heads e Biohazard, giusto per citarne qualcuno e pagherei per sapere cosa diceva ai tre mentre registravano: “Keanu, fammela più sentita quella brutta linea di basso!”. Il regista è importante. La band quattro anni dopo bisserà con un altro album e poi il silenzio. Fino ad oggi. L’hype non è poco. L’antiemetico già pronto.

Bruce Willis – The Return Of Bruno

o a Bruce Willis voglio molto più che bene e saperlo nelle condizioni in cui versa ora mi fa stringere il cuore, ma non è questo il motivo per cui non lo disintegrerò, non lo farò perché “The Return Of Bruno” è un cazzo di discone. Anzitutto esce per Motown. Basterebbe. Poi si carica sul groppone uno stormo di arrangiatori e musicisti di prima scelta (non ultimi Booker T. Jones e Joel Peskin, ex-Mothers Of Invention) e poi si diverte a rifare brani di Ry Cooder, Staple Singers, Drifters, Joe Cocker affiancandoli a pezzi autografi. È tutto bellissimo, l’ultimo boyscout ha una voce blues della madonna (certo, pur sempre bianca), la band brutalizza il groove a tutto spiano, sullo sfondo cori pazzi, tastiere super Eighties, suoni di plastica, chitarre in levare e battere, bassoni, sassofoni grossi come palazzi. Fa radicalmente sua Down In Hollywood (ed è uno dei brani più alti), su Jackpot (Bruno’s Bop) brucia l’armonica mentre il ritmo Fifties da fuoco alla pista, mentre Flirting With Disaster sarebbe stata perfetta come opening di uno qualsiasi dei “Die Hard”, city pop oscuro ottantiano con tanto di assoli completamente a caso che bucano le casse qua e là e, ultima ma non meno importante, la philcollinsiana Lose Myself. L’album all’epoca è pure approdato in varie classifiche. Insomma, yippee ki yay, motherfucker.

Scarlett Johansson – Anywhere I Lay My Head

Non mi spiegherò mai cos’abbia spinto Scarlett Johansson a fare un disco di sole cover (meno una) di Tom Waits. Un gesto ampiamente sconsiderato, a dispetto del team micidiale che sta dietro all’operazione, a partire da Dave Sitek (alla produzione) e Tunde Adebimpe dei TV On The Radio, il leggendario Ivo-Watts Russel, Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs e, rullo di tamburi, David Bowie che presta la voce in ben due occasioni. Sono certo al 100% che se avessero dato vita ad un album originale ne sarebbe uscita una roba mostruosamente bella. Lo dimostrano gli arrangiamenti che questa cerchia folle di musicisti ha donato ai brani di Nonno Tom e pure la voce di Johansson. Ma non si rifanno le odi di un mostro sacro tanto per fare, così, alla cazzo di cane, perché a tradire è proprio la mancanza di ruggito nella voce, lo stomaco prepotente delle originali ma anche alcune scelte infelici tipo I Don’t Wanna Grow Up virata synth pop orrido che non si può davvero sentire. Invece Song For Jo (la meno una di cui sopra) è uno stupendo compendio dream pop crepuscolare, ipnotico e cantato con l’anima e sostenuto da melodie shoegaze da sogno. In parole povere la prova empirica di uno spreco gigantesco.

P – P

Avrei ovviamente potuto sparare sulla proverbiale croce rossa per parlare di Johnny Depp tirando in ballo gli orripilanti Hollywood Vampires, una roba inascoltabile e pure inguardabile, da museo delle cere del cattivo gusto. Sarebbe stato semplice, invece da anni coltivo la mia piccola fissa personale per i P, band che Depp condivide con Gibby Haynes dei Butthole Surfers. Oltre alla band i due credo condividessero un certo tipo di dieta a base di droghe, ma sarebbe facilina pure questa. Che aspettarsi da un disco che affiancato al nome della band suona come “pee-pee”? Magari roba pazza come solo Haynes può e sa fare? D’altronde coi Surfers nel 1995 è sulla cresta dell’onda (beh…) benché anomala ed escono per Capitol che infatti pensa bene di produrre pure il debutto e unica uscita discografica della band. Successo: zero. Risultato: siamo lì vicini. Eppure “P” non è un brutto disco, solo leggermente senza anima. Sarà che Haynes ci ha abituati ad altro e sentirlo cantare sul serio fa uno strano effetto. Alternative rock, quello che all’epoca era indie anche quando usciva su major, mite e dalla follia appena accennata, venata di putrescenze rockabilly, richiami reggae alla bisogna, blues stortarello e un paio di cover agli antipodi, una di Daniel Johnston l’altra degli ABBA, nessuna memorabile. Il singolo Michael Stipe vede Depp lanciarsi in un assolone vergognoso (magari nella stessa posa in cui suona la chitarra nella pubblicità di un noto profumo accompagnato da un lupo). A registrarlo si sono di certo divertiti e se avete un’oretta buca forse pure voi ad ascoltarlo. Lo stesso anno Johnny sarà l’uomo morto che cammina di Jim Jarmusch che però non chiederà i servigi chitarristici della sua star oscura preferendo Neil Young, invece gli Oasis lo chiameranno alla slide su quel pezzone che è Fade In-Out. A ognuno il suo axeman.

Christopher Lee – Charlemagne: The Omens Of Death

Non c’è e non ci sarà mai un cattivo più mefistofelico di Christopher Lee. Conte prima Dracula e poi Dooku, Saruman Il Bianco, avversario di James Bond, dove lo mettevi a minacciare il mondo/la galassia risultava credibile. Lee, come noto, aveva anche una fissa per l’heavy metal. Il suo vocione baritonale e deliziosamente spaventoso poteva forse non comparire in un disco di quel genere? Io direi di sì, ma vallo a spiegare a Sir Christopher, che l’universo l’abbia in gloria. Ne avesse pubblicato poi uno solo…no, tre (più un EP se non ho contato male), due di questi dedicati a Carlo Magno. Quale scegliere? Sono andato a caso, selezionando la copertina “migliore”. Vi assicuro che li ho ascoltati tutti e per questo articolo ho dovuto rifarlo. Già io l’heavy metal non lo sopporto ma, nello specifico, “Charlemagne: The Omens Of Death” è quanto di più brutto io abbia mai ascoltato in vita mia (e sono parte di quella generazione che si è dovuta sorbire tutti i singoli dei Nickelback in heavy rotation). Assoli come piovesse, cavalcate a perdifiato (in una foresta, ci mancherebbe), arie medievali da sagra di paese e il Re a declamare le sue gesta attraverso Lee, roba che in confronto i Dragonforce paiono la band più seria di sempre. Il tutto ovviamente prodotto malissimo, registrato credo in una cripta, a questo punto. Spassoso è dir poco, se non imbarazzante e a tratti ti viene da pensare che vorresti dimenticare tutto per sempre. Grazie Sir, ti porto nel cuore.

Malfunk – Malfunk

Lungi da me dal voler ridurre tutto a “Ovosodo” ma è sicuramente tanto culto da essersi impresso, così come Tommaso Paladini interpretato da Marco Cocci. Correva l’anno 1997 e l’attore toscano aveva già all’attivo ben due album bestiali con i suoi Malfunk (il preferito del sottoscritto resta “Tempi supplementari”), uno più devastante dell’altro. Per lo stesso motivo di cui sopra non si possono ridurre i quattro alla sola Federico tu non stai bene, anche perché l’omonimo terzo album è tutto enorme ed è il brillante esempio di come si possa restare incattiviti pur aggiustando il tiro. Sempre se per “aggiustare il tiro” significa ricoprire con un altro strato di cemento le proprie canzoni. Le melodie sono paranoia pura, le chitarre di Federico Forconi sanno di noise rock lontano un miglio, non meno della sezione ritmica di Ugo Nativi e Gianluca Venier, cubica, inamovibile, imbastardita e capace di pestoni demonici (Via cavo). L’incredibile voce di Cocci tradisce un fastidio strisciante e trascina tutto nel vortice del male ed è il grunge in terra italiana. Anche quando valicano i confini di Bristol (Pensieri, Tre scimmie), meglio ancora se pestano con ferocia portandosi dietro le paure di inizio millennio (il disco è del 2000 ed è alfiere di quel sound che in Italia crescerà fino a implodere), che se ne stanno a covare fino a che, non potendone più, si trasformano in un fuoco di fila elettrico pestilenziale. È il disco della maturità, come si suol dire, è un disco fin troppo dimenticato, mentre altri diventavano ingiustamente più famosi. Recuperarlo è doveroso.

Wicked Wisdom – Wicked Wisdom

Il membro della famiglia Smith che decido di includere in questo articolo non è affatto il Fresh Prince, autore di diversi dischi rap all’acqua di rose, tutti tremendi, bensì la moglie Jada. Nei primi anni post-2000 milita nelle fila dei Wicked Wisdom e le suona di santa ragione, altro che il marito che piglia a pugni Chris Rock, lei ha un’altra marcia. L’omonimo album del 2006 anzitutto chiama al banco mix la creme dei produttori nu metal, ossia Ulrich Wild (Static-X) e Jay Baumgardner (Sevendust) che danno al disco un suono ancor più aggressivo. Il quintetto pesta durissimo mentre Smith grida ferocemente (su Cruel Intentions evoca lo spirito di Otep dritto nel microfono) oppure lascia che l’ugola voli via nell’iperuranio (Bleed All Over Me). Ci sono momenti in cui sembrano rievocare i Meshuggah (Something Inside Of Me), altrove sono “semplicemente” stomp massacranti degni dei Downset., cartelle sbiellate livingcouloriane, rap tirato come un elastico che si spezza ti si infila in un occhio. Certo, non di certo la band più originale dell’epoca, ma averne. Due anni fa la figlioletta Willow se ne uscì con una serie di cover dei Deftones (altro che Miami). Buon sangue non mente.

David Hasselhoff – Hooked On A Feeling

David Hasselhoff è l’automeme incarnato originario. Ha anticipato di decenni quello che sarebbe stato l’internet di oggi, in cui tutto ciò che era ieri diventa oggi attraverso la lente dello sfottò totale. Nei panni immortali di Mitch Buchannon in certe puntate di “Baywatch” pareva serissimo, sciorinava lezioni da vero paparone a stelle e strisce, poi è arrivato “Baywatch Night”, spin-off in cui Mitch se la doveva vedere con vampiri, licantropi e immondizia di serie b assortita e tutto si è rivelato. Quando da ragazzino scoprii che era lui a cantare il tema della celebre serie tv tutta pettorali unti e tette ondeggianti rimasi di stucco, ma mai quando vidi il video di Hooked On A Feeling per la prima volta (prima di tantissime altre, tipo millemila). Tanto osceno nella sua paccottiglia da farlo diventare subito un classico istantaneo. David vola in piedi su una moto e tu muori soffocato pisciandoti addosso. Poi arriva la musica, che è poi uguale in tutto il disco a cui la canzone dà il nome. Cassa in quattro, eurodance pacco miserabile, tastieroni, cori epici, ballate semi-latin ancor più pacco, ammiccamenti furboni che manco nelle peggiori discoteche durante le serate “per soli disperati però fighissimi”. In pratica la sagra del luogo comune e quindi, in parole povere, un disco enorme. Grazie di esistere David.

Cicciolina – Muscolo Rosso

Serve un’introduzione? Spero proprio di no. Ilona Staller, pornostar, parlamentare, cantante. Il mondo era diverso negli anni ’80 e la italo-disco era un mondo ancora più diverso, strano, abitato da figuranti le cui voci non appartenevano al volto che tutti quanti vedevano. Come nel porno, d’altro canto, in cui dive e divi venivano immancabilmente doppiati, cosa che cambierà nel tempo, e così anche nella italo-disco. Cicciolina, però, quando è stato il momento di registrare un album (uno dei tanti) ha usato la sua voce. Jay Horus, il suo produttore, negli stessi anni produrrà anche Moana Pozzi. “Muscolo Rosso” è un’allucinazione. Basta e avanza il testo della cover di Satisfaction per far saltare per aria tutto e vorrei tanto sapere se Keith e Mick l’hanno mai letto e che ne pensano dato che, in fin dei conti, il contenuto di questa versione non è poi tanto dissimile da quella che poteva essere la loro vita privata. Il resto è un’orgia di suoni sintetici, pure Eighties, ballate bagnate dalla voce lolitiana di Staller, testi pruriginosi, doppisensi tutto tranne che celati (prego ascoltare Animal Rock) ed erotomania a tutto spiano (a volte psych, come il “maiala” mandato in loop e massacrato dai nastri nella micidiale Black Sado o addirittura kraftwerkiano in Perversion). Musica libertina per tempi ingessati, allora come oggi. Da recuperare subito e senza remore.

Death In Vegas – Transmission

Perché i Death In Vegas? Perché su “Transmission” c’è Sasha Grey. Come sopra, come per Ilona Staller, Grey è molto più che una diva del porno: musicista, prima di tutto, attrice vera e propria in seconda battuta. Anche DJ tutto tranne che commerciale, tipo che una decina di anni fa la vidi in cartellone durante la Design Week a Milano con un pubblico che si aspettava chissà cosa, di certo non di sentire un set super-industrial. Tutto modo, gli aTelecine il suo progetto primario, poi cooptata anche da David Tibet su un paio di album dei Current93 e infine da Richard Fearless. La techno scheletrica del disco accoglie tra le sue ossa bruciate la voce di Sasha che sospira nel microfono, increspa il gelo minimal di Fearless, dilaniata dagli effetti, pura e cruda come solo lei potrebbe. Un gioiello da rave oppure locale cyberpunk, dronicamente essenziale, arty e pulsante. In copertina gli occhi di Grey che ti passano da parte e parte.

30 Odd Foot Of Grunts – Gaslight

Dentro e fuori dallo schermo a Russel Crowe pare prudano sempre le mani e non si faccia pregare per parcheggiarle in faccia al malcapitato di turno. Ci sarebbe quindi da immaginarlo a sbraitare nel microfono, incazzato come una serpe e invece no, il buon Gladiatore pare essere un cuore di panna. Andata a male, ma pur sempre panna. “Gaslight”, il debutto sulla lunga distanza dei suoi 30 Odd Foot Of Grunts è un orrore micidiale. Ballatone scialbe tutte chitarre acustiche (e con titoli tipo You Treat Me Like Chocolate, per darvi un’idea), sprazzi alternative rock che in confronto i Dogstar di Reeves sono i Pixies, blues-rock da pub di quart’ordine se non proprio quinto, sesto, millesimo. Di certo non lo vedrei bene sul palco del Coachella, insomma, ma su nessuno proprio, eppure pare che verrà pure in Italia in quel di giugno. Vi direi di non perdervelo, ma ci tengo ad essere onesto. Da evitare come la peste.

Buckethead & Viggo – Pandemoniumfromamerica

Altro giro, altro eroe della saga de “Il Signore degli Anelli” firmata da Peter Jackson. La differenza (enorme) che intercorre tra Christopher Lee/Saruman e il Re degli Uomini Aragorn/Viggo Mortensen sta tutta nel fatto che quest’ultimo di musica ne sa e non c’è scontatezza che tenga. Addirittura Mortensen spesso e volentieri si è accompagnato a quella figura allucinogena che è Buckethead, misterioso chitarrista mascherato fan sfegatato di Michael Jackson e visto sia alla corte di Les Claypool che a quella di Axl Rose. “Pandemoniumfromamerica” non è certo il primo disco che i due firmano in tandem ma è il mio preferito in assoluto. Uscito lo stesso anno de “Il Ritorno del Re”, si attesta per essere uno di quegli album immeritatamente dimenticati nel cassetto della memoria. La voce di Viggo è un abisso mentre tutto attorno la non-musica va squagliandosi tra rumori agghiaccianti e ambience droniche, mostruosità outsider e turbe psico-country (che starebbero benone nella colonna sonora de “La Strada”). Bonus non da poco è la presenza di Frodo/Elijah Wood che si presta a cantare (schiantatissimo in Gone) e darsi a percussioni e pianoforte. Lui invece di dischi non ne ha fatti, ma compensa col video di Make Some Noise dei Beastie Boys e questa chicca (no spoiler, cliccate e vedrete).

Gene Gnocchi And The Getton Boys – Antonella Pasqualotto Novenovesetteotto

Eroe maidiregoliano e punk di periferia. Dieci passi di lato agli Skiantos, vicino alla galassia Elio, Gene Gnocchi e suo fratello Charlie (davvero fratelli, mica come i Ramones) mettono su una band, i Getton Boys, attaccano gli ampli e si danno alla demenzialità spiccia. Da queste parti troverete, per l’appunto, Cesareo (chiaramente alla sei corde) e Otar Bolivecic (dietro il banco mix come già con gli Elii) e un sacco di testi che non credo sarebbero passati nemmeno dalle parti della Gialappa’s. Non c’è la ferocia di Freak Antoni ma lo stesso approccio alle rime casuali e a situazioni di provincia tanto goliardiche quanto normali che fanno la felicità di noi faciloni. Vuoi mettere il rockettone di Gettoni e della bestiale Giura che non è silicone, questa che oggi non potrebbe uscire nemmeno per scherzo oggi (tettoni pieni di gas, terze gambe di caucciù, Giulia che va a pezzi causa lifting non proprio ottimale), nel 2023. Ma “Antonella Pasqualotto Novenovesetteotto” è stato pubblicato 21 anni fa e quindi il problema non si pone.

Claudio Bisio – Patè d’animo

A proposito di cose che non passerebbero il fuoco di fila della censura dal basso: “Patè d’animo”. Sempre Mai Dire Gol ed Elio e le Storie Tese ma questa volta il tandem è stracinvente. Claudio Bisio + Rocco Tanica, coppia vincente. Totale. Oltre i due cavalli di razza ce n’è un altro, Roberto Vernetti, segnalato come “courtesy of AEROPLANITALIANI” ma io dico “Indigesti”, miei concittadini per i quali suonò il basso prima di darsi alla produzione. Non c’è un solo passaggio che non faccia urinare addosso per le risate. Su tutte Rapput e Sapore di Pinne (il figlio di Rapput) che vede la partecipazione della micidiale Angela Finocchiaro (sentirla dire “fistfakos” mi annienta), ma pure La droga fa male, con tanto di frecciate letali a certe “operazioni anti-droga”, pubblicità progresso degli allora governi ignoranti (occhi bianchi, aure viola e altre puttanate di questa risma), vera canzone di protesta comica con tanto di riffoni e assoli superock e che oggi farei ascoltare 24/24 a Salvini. L’urlo è l’apice, crossover da uscirci scemi e la base è nient’altro che Falling To Pieces dei Faith No More e sentirci cantare sopra Bisio è oltre l’umana immaginazione (“sono un mostro di violenza, sono una macchina per uccidere”). Germano, i sellini e sua madre, con Germano che fuori da un istituto maschile va ad annusare i sellini, che poi è Elio, non poteva essere altrimenti. Capolavoro definitivo con “liberi adattamenti” di Baccini e Aretha Franklyn (Le donne di Tunisi, Think) come ciliegina su una torta buonissima.

Milla Jovovich – The Peopletree Sessions

Ho appreso delle velleità musicali di Milla Jovovich da quella colonna sonora assurdamente bella di quel film assurdamente brutto che è “Underworld”, tratto da alcuni gdr con cui ancora oggi mi diletto, sulla carta buono, infine da cestinare. Ma a noi interessa la musica. Nella OST troviamo di tutto, da progetti one-shot come The Damning Well (Wes Borland, Danny Lohner, Josh Freese e Richard Patrick) a brani in cui David Bowie e Maynard James Keenan si dividono il microfono mentre John Frusciante pensa al resto fino a, appunto, Milla, da sola e di rinforzo ai Puscifer. Scavando scopro ben due album firmati dalla star de “Il Quinto Elemento”, “The Divine Comedy”, debutto in salsa folk e “The Peopletree Sessions”, che è tutt’altra roba. Affascinata dalle sonorità di inizio millennio (siamo nel 2000), Jovovich confeziona un disco fatto di ritagli astratti, spezzoni da DJ set sotterraneo con tanto di turbtablism a rimorchio (e richiami dall’altrove, tipo in DJ Puppy Ink con in apertura il refrain di Loser di Beck), melodie sghembe, d’n’b dopata, sotterfugi jungle e voce ubriaca che arriva da non si sa quale pianeta (e bellissima, bisogna ricordarlo). Compare anche Stephen Perkins, basso dei Jane’s Addiction, a dare manforte. Non di certo un capolavoro, ben inteso, ma un esperimento decisamente interessante e tutto tranne che scontato.

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