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Interviste

Un viaggio mentale con le note di “The Text And The Form”: intervista a Federico Madeddu Giuntoli

Federico Madeddu Giuntoli è un artista multidisciplinare di Pisa. 

The Text And The Form“, firmato Flau Records, è il suo primo album da solista (in passato ha fatto parte dei DRM) e vede la collaborazione della poetessa e compositrice elettronica tedesca Antye Greie aka AGF e dell’artista giapponese Moskitoo. L’album raccoglie 11 brani di ambient minimale che ricordano un Haiku giapponese fatto di suoni ricorrenti, che personalmente trovo piuttosto statico e con poca evoluzione ma anche raffinato, rilassante ed in qualche modo intriso di una magia sognante. 

È un lavoro che a volte mi trasporta in una stanza vuota e bianca dove riflettere, altre in una spiaggia solitaria ed infine sotto ad un salice svegliato dalla rugiada. Ma parliamone meglio con chi lo ha creato. 

Per prima cosa direi che sia importante presentarti. Come nasce la tua passione musicale e come si è sviluppata? 

Grazie Sara per avermi dato questa bella occasione di parlare insieme. Sono stato stimolato alla sensibilità verso la musica da mio padre, non musicista ma dotato di un forte orecchio musicale. Una fruizione della musica assolutamente nazional-popolare la sua, eppure in grado di risvegliare in me un’attenzione speciale verso il mezzo musicale, che riconoscevo come luogo nel quale era possibile l’espressione della propria verità intima. Sono autodidatta, ed ho sempre cercato di evolvermi nella consapevolezza dei miei limiti, con l’unico obiettivo di riuscire ad avere le capacità sufficienti per poter rappresentare la mia visione in modo non equivoco. 

Le immagini nella tua arte sono importanti quanto la musica? Personalmente le vedo molto coerenti: dolci, delicate e posso aggiungere anche nostalgiche? 

Sia la fotografia che l’assemblaggio di oggetti sensibili (è possibile vederne una collezione piuttosto completa sul mio sito web, federicomadeddugiuntoli.com) mi permettono di esprimermi e di condividere col mondo esterno il mio microcosmo interiore, esattamente come me lo permette la musica. Poterlo fare senza essere limitato al solo piano musicale è estremamente arricchente e nutritivo. La coerenza che noti credo sia conseguenza del fatto che rappresento sempre la mia realtà interna e il mio esistere, seppure con strumenti differenti, e con angolature ed enfasi peculiari al mezzo di volta in volta usato. L’elemento della nostalgia, o forse direi quel tono di gentile tristezza naturale che si trova in fondo alle cose, è certamente un’energia che si muove costantemente in me.

Qualcuno ha definito questo album in parte oscuro, a me invece ha comunicato molta luce e molti riflessi. Credo sia sempre interessante vedere cosa la musica sviluppi nelle varie persone, anche pareri totalmente diversi, non credi? Ma tu dove collocheresti la tua opera?

Le diverse letture sono un’ espressione della nostra ricchezza e varietà umana, e le onoro immensamente, sento gratitudine. Sono felice tu abbia notato le luminosità nell’album, anch’io le vedo, ce ne sono. D’altronde non possono negare anche la presenza di risonanze più ombrose legate al sentimento di perdita, che però credo si sveli nel suo aspetto trasformato, ovvero come abbraccio alla complessità, come gratitudine al di là di tutto. 

Nonostante sia un album solista trovo che ci siano molte collaborazioni, come siete entrati in contatto ed avete deciso di sviluppare “The Text And The Form”? 

Sia la collaborazione con AGF che quella con Moskitoo si basano sul mio profondo interesse verso i loro lavori e la loro sensibilità. In entrambi i casi ero in presenza di un brano strumentale del quale ero pienamente convinto ma che mi chiedeva un arricchimento vocale che però non fosse il mio. Le ho contattate da perfetto sconosciuto, ed evidentemente i brani hanno avuto una risonanza in loro, in qualche modo. Senza aver ricevuto da parte mia alcuna indicazione su come procedere, hanno semplicemente riempito di magia lo spazio potenziale che intuivo esserci, in un modo che mi ha sorpreso e che continua a sorprendermi.

La copertina di questo album è una tua foto? Cosa rappresenta e com’è venuta questa idea? 

La foto in copertina rappresenta un oggetto sensibile dal titolo “Inner alignment”, allineamento interiore. E’ stato proprio Yasuhiko Fukuzono, direttore della label FLAU, a suggerirmi di utilizzare uno di questi miei oggetti per la copertina, piuttosto che rivolgermi ad altri artisti. Era convinto che scegliere un mio oggetto avrebbe aumentato il senso di unicità dell’album. “Inner alignment”, come gli altri oggetti sensibili, non è altro che un segno, un gesto: non rappresenta nulla se non la propria presenza, la propria esistenza. Un oggetto sensibile che crea presenza e che la richiede all’essere umano che gli è di fronte, con un titolo va a dare colore specifico alla qualità di presenza che si innesca.

L’etichetta per cui è uscito questo album è giapponese, come mai questa scelta? 

Al momento della ricerca di un’etichetta nel mondo, FLAU era un’intima speranza, una prima scelta ideale. E’ stato un piccolo miracolo che proprio loro abbiano mostrato interesse, un cerchio che si è chiuso nel più magico dei modi. FLAU era la mia prima scelta per il loro catalogo così vario, del tutto privo di complessi, di altissima qualità, senza alcuna ostinazione pedante né riguardo al livello di formalità/informalità della musica, né riguardo alla specializzazione verso un genere musicale intorno al quale crearsi un’identità. Tutto permeato dalla ricerca di una positività matura e dall’assenza di cinismo o di aggressività estetica. Una visione che riconoscevo come affine e alla quale desideravo profondamente affidare l’album. 

La città di Pisa e la musica, anzi, la Toscana e la musica ma forse anche un po’ l’Italia in generale. Parliamo di questo, come la vedi? Come vedi collocato il nostro Paese rispetto, non dico al resto del Mondo ma almeno dell’Europa?

Mi limito al campo dell’arte. Il nostro Paese ha una base di raffinatezza estetica molto elevata, sulla quale però troppe volte si innestano ragionamenti e condizionamenti limitati e limitanti, che ci mantengono periferici, quando non provinciali. Credo sia sempre una questione di equilibrio: guardare solo all’estero ci obbliga ad una rincorsa infinita e senza speranza, voler trovare approvazione solo a livello locale ci spinge a costruire su fondamenta malsane di vizi e tic autoctoni e autoreferenziali. Credo che avere radici salde nella consapevolezza di chi si è e da dove si viene, per poi aprirsi con rispetto e curiosità verso il mondo sia la chiave per poterci confrontare fra pari con chi sta fuori, in modo reciprocamente nutriente. D’altronde le scelte le si fanno come singoli individui, sarà poi la somma di queste scelte a definire il Paese.

Chi sono i “maestri” artistici che hanno influenzato questo tuo lavoro a cui magari vorresti rendere omaggio? 

The Text And The Form” in qualche modo è davvero un omaggio a “Plee” di Mokira, a “When” di Vincent Gallo, a “Vocalcity” di Luomo, a “Music For Egon Schiele” di Rachel’s, a “Mañana” di Savath And Savalas, a Casa di Morellembaum2 / Sakamoto. E poi i To Rococo Rot, che vegliano sempre su ogni mia scelta sonora.

Vuoi dirci qualche parola sui testi presenti in questi tuoi brani/Haiku? Io le ho percepite quasi come un mantra, un momento meditativo…

Ci sono poche parole nell’album, ma possiedono una certa densità, un certo peso specifico, che è anche il frutto della loro rarefazione. Lo spazio nel quale sono immerse ne aumenta la eco interna in chi le ascolta e, come tu dici, quando arrivano possono talvolta risvegliare sensazioni meditative, legate probabilmente ad una comunicazione essenziale, diretta e forse anche non priva di un certo senso di mistero. Non ho mai considerato la possibilità di realizzare un album strumentale: ho sempre considerato l’elemento testuale come strutturalmente centrale, ma mi sono mosso nell’esplorazione chiedendomi quale fosse il massimo potenziale di sintesi e concisione che, tuttavia, conservasse intatto l’effetto magnetico della parola.

Una domanda che vorrei cominciare  fare nelle interviste da ora in poi è questa e chiudo: da musicista che genere musicale daresti ai nostri tempi e perché poi, nel tuo caso, quale immagine o fotografia? 

I tempi in cui viviamo si rappresentano al meglio proprio con la varietà di musica che questi tempi producono, esattamente nelle proporzioni con la quale questa varietà è prodotta e poi diffusa. Ciò che sentiamo è il suono del mondo attuale. Un suono contraddittorio, ricco, sempre più fluido, sempre meno definibile con i parametri delle categorie fisse. L’autotune che invade la musica leggera, il beat elettronico che assurge ad elemento caratterizzante quanto un ritornello, un’offerta musicale sterminata con standard di qualità impensabili qualche anno fa, artisti incredibili che si autoproducono e che faticano a rinunciare al day job, la musica sacra che continua ad essere suonata nei monasteri e negli ashram, l’AI che muove i primi passi. E ovviamente tanta distrazione, tanto rapido turnover, tanto conformismo anche in ambiti considerati sperimentali. Un mondo nel quale convivono conflitti e benessere, superfluo e sacro, noia e lotta per la sopravvivenza, forse solo un jazz sofisticato, non vanamente colto, profondamente umano, essenziale e caldo potrebbe provare a rappresentarlo. In fotografia, un’immagine che riunisca realtà umane diverse e parallele, in una strada, in metropolitana, in una zona rurale esotica raggiunta dal benessere tecnologico e dai suoi effetti collaterali, eppure ancora in grado di mostrare fragile bellezza. Un’immagine che raccolga tutto senza per forza giudicarlo, solo con un tono di gentile tristezza naturale.

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