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Hardcore for hardcore: “CVA” dei Paint It Black compie vent’anni

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Passando di fianco agli oratori, si sentivano gli schiamazzi dei ragazzi e si vedevano i palloni, calciati con forza, volare in alto, sin quasi a raggiungere gli alti recinti. Decine di ragazzini esaltati in libertà urlavano a squarciagola sin dalle prime ore della mattina. Avrebbero smesso solamente una volta che i loro genitori sarebbero venuti a riprenderli, dieci ore dopo. Fine della libertà. Era iniziata l’estate, la gente si soffermava davanti ai bar parlando con chicchessia del caldo e del fatto che fosse un’estate di un anno dispari e quindi senza eventi sportivi, ma si rincuoravano per i Mondiali del prossimo anno anche se quasi sicuramente Cassano sarebbe rimasto a casa. Eravamo nella seconda metà del 2005. Era un’estate veloce, perché lavoravo. La prima in cui avevo un contratto da rispettare, la prima in cui non avevo avuto bisogno di trovare un lavoretto interinale in qualche fabbrica in campagna per pagarmi le due settimane di vacanza in agosto.

La sera del sedici giugno toccava a me mettere la macchina. Mi aspettavano sotto l’ufficio, gli altri, e pioveva a dirotto. Non era stato un temporale estivo, uno di quelli che passano rombando tra palazzi della città e ti fanno scappare in macchina o sotto qualche porticato per cercare riparo: era una pioggia che sembrava autunnale e che non faceva paura, anzi. Le persone e i miei colleghi sembravano viverla, quel giorno, come una leggera abitudine. Uscii dal palazzo ed arrivai al parcheggio che era ancora chiaro, mi tolsi i jeans e indossai i pantaloni corti, mi tolsi la camicia con le maniche corte e rimasi con la maglietta dei La Quiete, “Tanto Punk”, grigia. Al Leoncavallo il concerto infrasettimanale prevedeva i Paint It Black da Philadelphia. Avrebbero suonato sopra, vicino all’ingresso in cortile, nello spazio di fianco al baretto dove mettevano reggae. 

“Poi afterparty al baretto”, dicevano gli altri. Tanto guidavo io. Sorrisi, nulla di che. Volevo vedermi i Paint It Black, altro che baretto e reggae e afterparty e cannoni e tornare a casa come se fosse stata una serata qualunque. Per una serata così, potevamo anche starcene in provincia. Li avevo conosciuti, praticamente da autodidatta, un annetto prima, leggendo notizie sulle vicissitudini di Kid Dynamite e Lifetime. Ho sempre adorato i primi, nonostante la cortissima carriera, mentre i secondi, con il loro hardcore melodico ma nemmeno tanto hardcore e nemmeno tanto melodico, non sono ma riusciti veramente ad entrarmi in testa. Sarebbe troppo riduttivo constatare che il primo disco dei Paint It Black, “CVA”, uscito esattamente vent’anni fa, sia la naturale commistione tra le sonorità e l’attitudine dei due gruppi, soliti a scambiarsi ciclicamente componenti.

Rispetto alla sua pubblicazione, quel concerto arrivò due anni dopo, ma la sua portata, almeno per quanto mi riguarda, fu devastante. Ci ritrovammo tutto ad un tratto sudati marci, a cantare l’iniziale Cannibal e subito dopo, dato che era il suo compleanno, un augurio non troppo elegante al cantante, Dan, che per fortuna, dall’alto del palco ma soprattutto della sua stazza, non capì una parola e si unì al coro “Buon compleanno figlio di puttana!”. C’era gente con la maschera da sub che faceva stage diving, c’era chi continuava a ripetere che quel batterista lì, che poi era anche quello dei Kid Dynamite, aveva fatto un disco coi Good Riddance; c’era chi, a lato della calca e delle botte, masticava cicche compiaciuto osservando cosa avvenisse sotto al palco.

Hardcore for hardcore, ecco cos’era: sapevamo che nelle nostre vite avremmo incontrato persone fatiscenti, che ci avrebbero portato alla decadenza assieme a loro, ma non importava. L’essenza si riduce a questo dato di fatto. Sulle note di tutto “CVA” suonato dal vivo ci facevamo forza l’un l’altro, in attesa di quei momenti che, volente o nolente, prima o poi sarebbero arrivati. Magari assieme a malattie, separazioni, perdite. Per durata, numeri di canzoni e direzione, “CVA” potrebbe essere definito un disco powerviolence. Persino l’acronimo del titolo, “Cerebro Vascular Accident”, lo è. Più grind, se proprio vogliamo dirla tutta.

In sé, invece, si tratta di un substrato di cultura, violenza e carica passionale. Vi sono citazioni da Harper Lee (Atticus Finch) e ci sono i giri di basso ad iniziare le canzoni;  vengono posti paletti ben precisi, per non farci dimenticare chi siamo e da dove veniamo, in Less Deicide, More Minor Threat;  ci si rende conto di far parte di un movimento giovanile che non ha paura delle botte in CVA, la canzone che dà il titolo al disco, nella quale viene avvertito l’ascoltatore che  “It’s a lesson that I won’t forget. You haven’t seen the last of me yet.”

Capii, grazie a Womb Envy, che i proclami e le narrazioni su “unity”, rispetto, e fratellanza in una scena come quella italiana fossero tutte enormi menzogne. Che la positività nei testi di un disco hardcore non avrebbe mai potuto rispecchiare le lacerazioni interne di ragazzi come me, che hanno sempre avuto un grosso buco nero nell’anima da colmare, pesante come un carro armato che avanza nel fango. “CVA” è un urlo di denuncia del disagio e del decadimento proprio per questo, un disco unico a livello mondiale, di denuncia silenziosa e, dulcis in fundo, totalmente umorale. “Brothers and sisters, here’s my decision: Fuck competition, turn my back, back back on division. Did we learn the difference between want, and need? Can we be the soil if this song is the seed?”. E poi le nevrosi di Void e Watered down arrivando alla sarcastica disillusione di This Song Is Short Because It’s Not Political.

I Paint It Black vennero in Europa, quell’estate, per promuovere e suonare il loro secondo disco, intitolato “Paradise”, uscito proprio nel marzo quell’anno. Fecero, ovviamente, Nicaragua e Labor Day, le canzoni più importanti di quel lavoro, che non riuscì mai, però, ad eguagliare come importanza, almeno per come la vedo io, “CVA”.

Un carro armato. Una valanga che faceva più casino dei temporali in pianura, pronti a cessare le ostilità dopo uno sfogo di pochi minuti. Erano anni in cui, grazie soprattutto a label americane come Bridge Nine e Deathwish Inc., stava prendendo piede il cosiddetto “hardcorone”: Nike, moda, stage diving e violent dancing preparati a puntino e tante, troppe parole dettate da superficialità e contenuti poco palpabili. “CVA” rappresenta un punto di non ritorno per tutti coloro che hanno da sempre dimostrato idiosincrasia verso questa moda nascente. Questo è hardcore e quello no. Così va bene e così no.

Diciassette canzoni per altrettanti strappi ed altrettanti modi per descrivere sofferenza, apatia e necessità di ricominciare. Una battaglia sino all’ultimo respiro contro parassiti, ignoranza e volgarità. Il chitarrista dell’epoca, Andy, ora suona stabilmente nei Ceremony. Su Jade Tree Records, ça va sans dire. Alto che baretto e reggae, altro che unity.

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