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Devendra Banhart – What Will We Be

2009 - Warner
pop/folk

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Tracklist

1.Can't help but smiling
2.Angelika
3.Baby
4.Going back
5.First song for B
6.Last song for B
7.Chin Chin and Muck Muck
8.16th and Valencia roxy music
9.Rats
10.Maria Lionza
11.Brindo
12.Meet me at lookout point
13.Walilamdzi
14. Foolin

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Lui è una specie di messia. Uno che fa srotolare le lingue dei critici, anche i più severi. Un barbuto capellone che zompetta per il mainstream nella sezione: “underground da esportazione”. Sarà per questo che affascina così tanto, non perché ci ricorda un mendicante cajun, o per il modo che ha di suonare la chitarra, ma per il fatto che è potabile, è passabile anche nei circuiti più pop dell’universo musicale.
Lui è una meteora che ha fatto un gran bel buco e i rinomatissimi critici americani lo definiscono “New Weird America”. Lui…vestito in casacchine sixty e con una chitarra classica in mano, anni e anni dopo Cat Stevens. Di weird io ci vedo solo la capacità degli esperti di conciare le cose a proprio piacimento in un impeto di nostalgia, quasi si sentisse davvero la necessità di un nuovo Woodstock ’69. Allora cominciamo dalle cose piccole, così da arrivare piano piano ai grandi concertoni da prato, tutti amore, pace & fango.

Devendra, la parte più originale di tutta la faccenda è il nome, viene scoperto in un buco di Los Angeles da un certo Michael Gira, incide il primo album con il titolo di “Oh me oh my” e da lì in poi ne mette in piedi altri 4, in un ulteriore lampo di geniale originalità ne fa uscire due insieme, nel 2004, “Nino Rojo” e “Rejoicing in the hands, mette in piedi una band formata da una miriade di componenti che cambiano continuamente come il nome della band stessa, Longing for boner, Bathhouse of the winds, Fairy band, Hairy fairy and first woman millionaire, insomma uno spasso senza sosta che ovviamente deve per forza di cose essere caratterizzato da contorni musicali spassosissimi. Non ne ho la sensazione. Ad ascoltare quello che c’è su questo disco non viene in mente alcunché, se non un bravissimo strimpellatore che arrivato ad un certo numero di album deve arrendersi e cominciare a correre in cerchio per non perdere il treno delle stelle e rimanere un semplice artista da “one night stand”. Si è tutto molto più strutturalmente complesso, ancor più del precedente “Smokey rolls down thunder canyon”, e in definitiva siamo sul mediamente orecchiabile, il che vuol dire quattro o cinque pezzi che vanno oltre il primo ascolto, ma non c’è quello scarto emotivo, quel barlume oltre la foschia che rivela qualcosa di nuovo, di necessario. È la sfiga del nome che si porta, di uno che a pelle deve per forza di cose essere originale in tutti i sensi. Che condanna! Che umiliante convivenza! Un nome così “predisposto” e assolutamente il nulla da comunicare, da dire.

Tutto il disco scivola, inesorabilmente verso un lentissimo battito di cuore che quasi si spegne di morte naturale sulle lentissime e paciose note di Last song for B, una scure che scende a decapitare la testa di chi ascolta e che rende il tutto un vano tentativo di fare qualcosa con significato. Si fosse chiamato Mario Rossi adesso ci troveremmo tutti ad osannarlo e a rigirarcelo nei complimenti, ma con questo Devendra…dove si può andare?? una nota interessante? Lui è anche un p ittore, alcuni dicono bravissimo, e alcune sue opere sono esposte al MOMA di San Francisco, vicino ai lavori di Klee, forse in quel campo potrei anche non fare caso al nome

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