I had a dream, anzi no…non era un sogno, ma un’allucinazione causatami dalla copertina del nuovo album dei Black Lips: una ragazza in topless mascherata, nuvole di fumo colorate e ondeggianti photoshoppate, teschi, il logo della band che sembra uscito da Prince Of Persia. A questo punto mi sono visto danzare, sudato, in mezzo al nulla di un deserto afghano. Jeans tagliati sopra al ginocchio. Un poncho sudicio. Strafatto di allucinogeni. Un walkman.
Eh già, Arabia Mountain, sesto lavoro della band di Atlanta, è uno schizzo pazzesco di pop visionario, grezzo, animalesco, imbevuto fino al midollo in un punk sixties con la bava alla bocca. Stavolta qualcuno è stato in grado di dare un senso alla matassa di sregolatezza espressa dalla band statunitense. Lo stile di vita non c’entra: quattro criminali erano, e quattro criminali restano. Ma la musica sì, cambia nel momento in cui due geni si alternano alla produzione: Lockett Pundt (Lotus Plaza) e quel dandy di Marck Ronson. Il risultato è stupefacente: una chicca dopo l’altra, tocchi bizzarri, lampi accecanti e sax selvaggi (“Family Tree”, “Mad Dog”), mix sgangherati a cavallo fra sonorità mod (“Bicentennial Man”, “Time”), il clappin’surf alla Fleshtones (“Spidey’s Curse”, “Bone Marrow”, “New Direction”), il punk fischiettante dei Ramones (“Raw Meat”) e il blues tossico e allucinato di alcune ballads tipiche dei primi Black Lips (“Mr. Driver”, “You Keep On Running”).
Da ascoltare in loop, almeno fino a quando non vi appare un coyote in frac che vi dirà: “Hey, forse è meglio che ti rilassi un attimo, altrimenti collassi”.
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