Già dalla sua copertina il secondo disco di Lisa Hannigan, “Passenger”, si preannuncia essere un viaggio alla scoperta di una geografia interiore fatta a volte di pensieri intricati, ricordi dolenti e scoperte luminose. Per una che se n’è uscita spalle larghe e gambe forti dai tumulti portentosi della relazione sentimentale e professionale con la figura scomoda e ammaliante di Damien Rice, non c’è niente di meglio che sfogare tutto quanto in 10 pezzi coinvolgenti, 10 tappe di un continuo peregrinare tra strade alternative e sentieri del passato, verso una consapevolezza sempre più forte e una crescita artistica e personale solo a tratti mostrata dal 3 anni fa nel debutto solista “Sea Saw”.
La produzione limpida e fin troppo patinata di Joe Henry non priva la Hannigan della possibilità di mettere a fuoco un bel ventaglio di interpretazioni colorite e appassionate, sia quando dimostra di conoscere a menadito la lezione folk della sua Irlanda (“Knots”), sia quando si lancia leggera in certe discesone mainstream (“What I’ll Do”) o si immerge in paludi di pop scuro e introspettivo (“A Sail”). La sensazione è di ascoltare un disco maturo, composto ed elegante, senza passi falsi o grossi scivoloni di sorta, se si esclude il duetto con Ray La Montagne in “O Sleep”, buio e intenso storytelling che trasuda però un po’ di anonimato e inadeguatezza nel confronto con gli altri brani, con la bellissima “Paper House” su tutti, espressione palese della potenza emotiva e del buon gusto della Hannigan alla quale forse manca ancora un gradino per spiccare definitivamente il volo.
Intanto godiamocela svolazzare leggera e senza indugi e regalarci un saggio di quella che potrebbe diventare una delle nostre voti preferite.
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