Coraggioso questo esordio dei Verbal, quintetto italiano di giovani musicisti bergamaschi (per una volta facciamo i nomi: Gregorio Conti, Isaia Invernizzi, Marco Parimbelli, Sebastiano Ruggeri, Marco Torriani) dedito ad una forma aggressiva e non scontata di post rock mutante.
Perché usiamo l’aggettivo mutante? Il motivo è semplice: ascoltando questi 6 brani (intitolati ciascuno con un cognome, famoso o meno) si avverte chiaramente l’intento della band, che è quello di non fornire punti di riferimento che non siano, a grandi linee, quelli di un post rock chicagoano nelle intenzioni – vengono in mente soprattutto quei trattori dei Trans Am – che però si tramuta ben presto in forme di math rock bello spesso, in riferimenti al kraut rock più rumoroso, in innesti di noise frantumante e parecchio brutalizzato (le voci trattate ed alterate che diventano un tutt’uno con gli strumenti nel finale caotico di “Kaspar Hauser”). Insomma, la musica proposta dalla band non è sicuramente di facile assimilazione: completamente strumentali (a parte l’uso delle voci di cui si parlava poc’anzi) le tracce vivono di strappi ed attacchi all’arma bianca inframezzati da parti che richiedono l’uso di dilatazioni e spazi sonori più ampi (“Coronado”, la suggestiva “Kobayashi”). Quando le ritmiche sincopate tendono al marziale è come assistere ad un brutale crash tra i Don Caballero e gli Helmet degli esordi (“Orwell”, forse il brano più riuscito).
Per gli amanti del genere un disco che merita sicuramente più di un ascolto.
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